giovedì 10 gennaio 2008

Education at a Glance

Education at a Glance: OECD Indicators - 2006 Edition
Summary in Italian

Presentiamo, per completare l'articolo "E' la somma che fa il totale", pubblicato su "Stampa, Scuola e Vita", il documento completo dell'Ocse sugli indicatori relativi all'educazione di tutti i suoi paesi membri.

Uno sguardo sull’Educazione: Gli indicatori dell’OCSE – Edizione 2006

Riassunto in italiano

Uno sguardo sull’educazione fornisce agli educatori, ai responsabili politici, agli studenti e ai loro genitori un'ampia gamma di indicatori che riflettono quasi tutti gli aspetti quantitativi e qualitativi delle politiche e delle prestazioni dei sistemi scolastici nei paesi dell’OCSE e in alcuni paesi partner.Oltre a offrire informazioni sulle prestazioni, le risorse, il livello della partecipazione e l’organizzazione dei sistemi scolastici, il rapporto fornisce anche un certo tipo di informazioni necessarie per valutare aspetti quali l’importanza attribuita all'acquisizione delle competenze di base, al numero ideale di alunni per classe, alla durata dell'anno scolastico.

Valutare la qualità dei sistemi scolastici

Nel 2003, Il Programma per la Valutazione Internazionale degli Studenti (PISA) ha misurato le prestazioni in matematica degli studenti quindicenni nei paesi OCSE. La Finlandia, la Corea e i Paesi Bassi hanno registrato livelli di prestazione molto più alti della media degli altri paesi dell’OCSE, e un livello di conoscenze che supera di più della metà la media OCSE. Undici paesi (Australia, Belgio, Canada, Repubblica Ceca, Danimarca, Francia, Islanda, Giappone, Nuova Zelanda, Svezia e Svizzera) hanno registrato punteggi superiori alla media OCSE. Austria, Germania, Irlanda e Repubblica Slovacca sono nella media, mentre gli 11 paesi restanti registrano punteggi più bassi.
Non esistono confronti di questo tipo per le generazioni precedenti, ma il completamento dei diversi livelli di istruzione offre un’idea dei livelli di studio raggiunti. In media, nei paesi dell’OCSE, il 42% della popolazione adulta ha completato solo studi di istruzione secondaria superiore. Circa il 30% degli adulti ha raggiunto un livello di scuola primaria o secondaria inferiore ed il 25% ha ottenuto un diploma di istruzione superiore. Si registrano tuttavia ampie differenze, da un paese all’altro, per quanto riguarda la distribuzione dei livelli di istruzione tra la popolazione.
Le prestazioni dei paesi asiatici continuano ad essere più elevate di quelle dei paesi Europei e degli Stati Uniti. Due generazioni fa, la Corea aveva un livello di vita simile a quello attuale dell’Afganistan e si collocava tra i paesi con i più bassi livelli di prestazioni scolastiche. Oggi, il 97% dei coreani di età compresa tra i 25 e i 34 anni ha completato studi di istruzione secondaria superiore: il tasso più alto dell’area OCSE. Ma quello della Corea non è un esempio isolato. Solo tra il 1995 ed il 2004, il numero di studenti che intraprendono studi universitari è più che raddoppiato in Cina e in Malesia ed è cresciuto dell’83% in Tailandia e del 51% in India.
I paesi asiatici registrano migliori prestazioni anche in termini di qualità. Secondo l’indagine PISA, negli Stati Uniti e nella maggior parte delle economie forti europee, le prestazioni degli studenti quindicenni sono pari o inferiori alla media OCSE. I sei sistemi scolastici asiatici inclusi nell’indagine PISA 2003 si sono classificati tra i primi dieci con, oltretutto, un tasso di partecipazione elevato. Diversamente, il 20% dei quindicenni europei, e oltre un quarto degli studenti statunitensi hanno raggiunto prestazioni di Livello 1 (il più basso del PISA) o inferiore. In tutta l'area OCSE, gli studenti provenienti da ambienti disagiati hanno 3,5 volte più probabilità di raggiungere un livello pari o inferiore al Livello 1 di quelli provenienti da ambienti socio-economici più avvantaggiati.

Numero di studenti per classe: le classi meno numerose non sono sempre le migliori

I risultati mostrano che non esiste sempre una correlazione tra il rapporto insegnanti/studenti ed il livello di prestazioni. In Giappone, Corea, Messico, Brasile, Cile e Israele ci sono 30 e più studenti per classe contro i 20 o meno di Danimarca, Islanda, Lussemburgo, Svizzera e Federazione Russa, ma in Lussemburgo, ad esempio, solo il 2,7% degli studenti figura tra i migliori in matematica (sempre secondo l’indagine PISA), contro l’8,2% in Giappone.
La qualità dell'interazione tra insegnanti e studenti varia in base al numero di classi e di studenti di cui ogni insegnante è responsabile, alla materia insegnata, al tempo che gli insegnanti dedicano all'insegnamento e ad altri compiti, al raggruppamento degli studenti nelle classi, e alla pratica del team teaching (insegnamento in compresenza).

Equilibrio tra i generi: le prestazioni delle ragazze superano quelle dei ragazzi

Le differenze tra i generi nei tassi di conseguimento di un diploma stanno sempre più cambiando in favore delle donne. Fra la popolazione di età compresa tra i 55 e i 64 anni, solo in tre paesi risulta che le donne hanno compiuto studi più lunghi, ma fra gli adulti tra i 25 e i 34 anni risulta che le donne compiono in media un numero maggiore di anni di studio in 20 dei 30 paesi dell'OCSE, e solo in 2 dei 10 paesi restanti (Svizzera e Turchia) si registrano differenze pari a più di 0,5 anni a vantaggio degli uomini.
Il tasso di diploma di istruzione secondaria tra le ragazze supera quello dei ragazzi in 19 su 22 paesi OCSE e in 3 paesi partner. Il divario a vantaggio delle ragazze supera i 10 punti percentuali in Danimarca, Finlandia, Islanda, Irlanda, Nuova Zelanda, Norvegia, Polonia e Spagna, e Brasile. In Turchia, il tasso di diploma tra gli uomini è più alto di 8 punti percentuali, mentre in Corea e in Svizzera, si registra meno di un punto percentuale di differenza.

Remunerazioni e carico di lavoro degli insegnanti: un panorama misto attraverso i paesi dell’OCSE

Rispetto al PIL pro capite, gli stipendi più bassi tra gli insegnanti con almeno quindici anni di esperienza nella scuola primaria e secondaria inferiore si registrano in Ungheria (0,91), Islanda (0,69), Norvegia (0,87), Polonia (0,83) e Israele (0,73); i più alti in Corea (2,37 nella scuola primaria e 2,36 nella scuola secondaria inferiore), Messico (2,09 nella scuola secondaria inferiore) e Turchia (2,44 nella scuola primaria). Nella scuola secondaria superiore, i valori più bassi dell’indice si registrano in Norvegia (0,87), Polonia (0,83), Islanda (0,94) e Israele (0,73).
Nella scuola secondaria inferiore, gli stipendi degli insegnanti con almeno 15 anni di esperienza variano da circa $10.000 in Polonia a $48.000 o più, in Germania, Corea e Svizzera, e superano gli $80.000 in Lussemburgo.
Tra il 1996 e il 2004 gli stipendi sono aumentati in termini reali in quasi tutti i paesi, gli aumenti più notevoli si sono avuti in Finlandia, Ungheria e Messico. Nello stesso periodo, in Spagna, gli stipendi nel ciclo primario e secondario superiore sono diminuiti rimanendo, tuttavia, al di sopra della media OCSE.
Il numero di ore di insegnamento all’anno nelle scuole pubbliche è in media di 704, ma può variare da 1.000 in Messico e Stati Uniti a 534 in Giappone. Esistono anche notevoli differenze nella distribuzione delle ore di insegnamento nell’arco di un anno. Ad esempio, in Islanda, su un anno scolastico di 36 settimane, gli insegnanti lavorano un maggior numero di ore rispetto ai loro colleghi in Danimarca, dove l’anno scolastico è di 42 settimane. Tuttavia, le ore di insegnamento sono solo uno degli indicatori del carico di lavoro degli insegnanti, che può anche includere il tempo trascorso per preparare le lezioni, per correggere i compiti, o per altre attività.
Nei paesi dell’OCSE, gli studenti tra i 7 e i 14 anni ricevono in media 6.847 ore di insegnamento, di cui 1570 tra i 7 e gli 8 anni, 2.494 tra i 9 e gli 11 anni e 2.785 tra i 12 e i 14 anni. In media nei paesi dell’OCSE, lettura e scrittura, matematica e scienze rappresentano circa il 50% delle ore obbligatorie di insegnamento per gli studenti di età compresa tra i 9 e gli 11 anni ed il 41% per gli studenti di età compresa tra i 12 e i 14 anni. Per quanto riguarda la lettura e la scrittura, la percentuale varia notevolmente da un paese all’altro: dal 13%, o meno, in Australia, Cile e Israele, al 30% in Francia, Messico e Paesi Bassi. Esistono anche notevoli differenze per quanto riguarda la percentuale di ore di insegnamento dedicate alle lingue straniere, che varia dall’1%, o meno, in Australia, Gran Bretagna, Giappone e Messico, al 21% in Lussemburgo.

Il costo dell’istruzione: 5,9% del PIL, in media, nei paesi dell’OCSE

Nei paesi dell’OCSE la spesa per l’istruzione si aggira intorno al 5,9% del PIL, con variazioni dal 3.7% in Turchia all'8% in Islanda. La spesa per studente è di $5450 all’anno nell’istruzione primaria, $6.962 nella secondaria e $11.254 in quella superiore. I paesi dell’OCSE spendono in media $77.204 per studente nel corso della durata prevista degli studi primari e secondari. L’importo varia da meno di $40.000 in Messico, Polonia, Repubblica Slovacca, Turchia, Brasile, Cile, e Federazione Russa, a $100.000 e oltre in Austria, Danimarca, Islanda, Italia, Lussemburgo, Norvegia, Svizzera e Stati Uniti. Nell’ambito dell’istruzione sueriore, l'ampia varietà di corsi offerti rende difficili i confronti. Ad esempio, in Giappone si spende all’anno, per uno studente del livello terziario, quasi quanto in Germania ($11.556 in Giappone, $11.594 in Germania), ma poiché la durata media degli studi terziari è di 5,4 anni in Germania e di 4,1 anni in Giappone, la spesa globale per uno studente dell’istruzione superiore è di soli $47.031 per il Giappone, contro $62.187 per la Germania.
Da notare che una spesa unitaria minore non si traduce necessariamente in un livello di conseguimento più basso. Ad esempio, la Corea e i Paesi Bassi spendono meno della media OCSE per l'istruzione primaria e secondaria, ma figurano entrambi tra i paesi con le migliori prestazioni nell’indagine PISA 2003.
Tra il 1995 e il 2003 la spesa per l’istruzione primaria, secondaria e post-secondaria non terziaria è aumentata in tutti i paesi. In 16 dei 26 paesi dell’OCSE e paesi partner per i quali i dati sono disponibili, l’incremento supera il 20%, ed è pari al 30% , o oltre, in Australia, Grecia, Ungheria, Irlanda, Messico, Paesi Bassi, Polonia, Portogallo, Repubblica Slovacca, Turchia e Cile. Gli unici paesi in cui, nello stesso periodo, si è registrato un incremento della spesa per l’istruzione primaria, secondaria e post-secondaria non terziaria per studente pari, o inferiore, al 10% sono la Germania, l'Italia, la Svizzera e Israele. Questi cambiamenti non sono però esclusivamente ascrivibili al calo del numero delle iscrizioni.
La situazione è diversa per l’istruzione superiore. Durante il periodo 1995-2003, in 7 dei 27 paesi dell’OCSE e paesi partner per i quali sono disponibili i dati (Australia, Repubblica Ceca, Polonia, Portogallo, Repubblica Slovacca, Brasile e Israele) la spesa per studente è diminuita e questo calo è in gran parte ascrivibile all’aumento di oltre il 30% del numero di studenti. Tuttavia, nonostante un aumento delle iscrizioni, la spesa per studente è aumentata del 93%, in Grecia, del 70% in Ungheria, del 34% in Irlanda, del 48% in Messico e del 68% in Cile. Tra i 27 paesi dell’OCSE e i paesi partner, Austria, Canada, Danimarca, Germania, Italia, Paesi Bassi e Turchia, sono stati gli unici in cui il numero degli studenti è aumentato meno del 10%.

Chi paga? Sono soprattutto i governi che pagano il conto, ma si registra un aumento dei finanziamenti privati.

In media, nei paesi dell’OCSE, il 93% dell’istruzione primaria, secondaria e post-secondaria non terziaria è sovvenzionato da fondi pubblici, ma i finanziamenti privati superano il 13% in Australia, Germania, Corea, Messico, Svizzera, Regno Unito e Cile (paese partner). Durante il periodo 1995-2003, si è osservato un sostanziale equilibrio tra il numero di paesi in cui si è registrato un incremento del finanziamento pubblico e quello in cui il finanziamento pubblico è diminuito.
Tuttavia, nell’istruzione superiore, i finanziamenti privati sono aumentati un po’ ovunque, superando i 3 punti percentuali nella metà dei paesi con dati disponibili e di oltre 9 punti percentuali in Australia, Italia e Regno Unito.
La quota della spesa per l’istruzione superiore finanziata dai privati, varia da meno del 5% in Danimarca, Finlandia, Grecia, Norvegia e Turchia a più del 50% in Australia, Giappone, Corea, Stati Uniti e Cile. Gran parte di questi finanziamenti privati proviene dalle famiglie sotto forma di tasse d’iscrizione e di frequenza. Il 25% dei paesi non fa pagare tasse, mentre nei restanti paesi il loro importo varia notevolmente.

Investimenti per l’istruzione: effetti positivi per gli individui e per i sistemi economici

L’istruzione è in gran parte finanziata da fondi pubblici e vari studi indicano che si tratta di soldi ben spesi. Si stima che, nell'area OCSE, un anno aggiuntivo di istruzione si potrebbe tradurre, a lungo termine, in un aumento dal 3 al 6% della redditività economica.
L’esame delle cause della crescita economica mostra che, dal 1994 al 2004, nella maggior parte dei paesi dell’OCSE, l'aumento della produttività del lavoro ha inciso per almeno la metà sulla crescita del PIL pro capite. L’istruzione non è certo l’unico fattore ad incidere sull'incremento della produttività, ma uno studio fondato sul grado d'istruzione come misura del capitale umano mostra che un paese con un livello d'istruzione globale superiore dell’1% alla media internazionale, raggiungerà livelli di produttività del lavoro e di PIL pro capite superiori, rispettivamente, del 2,5% e dell'1,5% a quelli di altri paesi.
Anche per i singoli individui, l’istruzione rappresenta un ottimo investimento. Dato che l’istruzione primaria e parte della secondaria sono obbligatorie, la “decisione d’investimento” riguarda generalmente se continuare o no gli studi oltre la scuola dell’obbligo. Nonostante i diffusi rapporti sulla "inflazione dei voti" e la svalutazione dei diplomi, l’investimento per conseguire un diploma universitario può produrre ritorni privati annuali (calcolati confrontando le aspettative di futuri guadagni con il costo privato degli studi) pari al 22.6% e tutti i paesi mostrano un tasso di ritorno superiore all'8%. Esistono anche notevoli benefici indiretti: molte analisi nazionali indicano una correlazione positiva tra conseguimento di un livello di studi elevato e migliore salute fisica e mentale.
Il livello d’istruzione non abolisce tuttavia le disparità dei redditi tra i generi: a parità di livello d'istruzione, le donne guadagnano dal 20% al 50% in meno degli uomini.

L’impatto dei cambiamenti demografici

In 23 dei 30 paesi dell’OCSE così come in Cile, si stima che il numero di studenti nella scuola dell’obbligo sia destinato a ridursi nel corso dei prossimi 10 anni. Questa tendenza è molto più drastica in Corea dove si prevede che la popolazione di età compresa tra i 5 e i 14 anni diminuirà del 29%. La popolazione di età tra i 15 ei 19 anni dovrebbe diminuire del 30% o più, nella Repubblica Ceca, la Repubblica Slovacca e la Federazione Russa.
In alcuni paesi, questo calo si è manifestato prima. In Spagna, ad esempio, si prevede che la popolazione di età compresa tra i 20 e i 29 anni diminuirà del 34% nei prossimi 10 anni.
Assumendo, a scopo esemplificativo, che i livelli di partecipazione e di spesa per studente rimangano quelli attuali, le tendenze demografiche illustrate condurranno ad una diminuzione della spesa complessiva per l'istruzione in quasi tutti i paesi dell'OCSE, ad eccezione di quattro paesi e del Cile, dove cresceranno probabilmente le opportunità di aumentare i livelli di partecipazione o di spesa per studente. Negli Stati Uniti si prevede, invece, un aumento della popolazione nei prossimi dieci anni: tendenza che si potrebbe tradurre in maggiori bisogni di finanziamento.

martedì 8 gennaio 2008

Liliana Magrini. Dossier Maghreb

Dossier / Maghreb


Tentativi di integrazione ed elementi di divaricazione
di Liliana Magrini


II progetto per la creazione del « grande Maghreb », che fu oggetto di discussione ai vari livelli fra Algeria, Tunisia, Marocco, Libia e Mauritania soprattutto nel corso degli anni '60, non è riuscito a decollare. La differenza dei modelli economici e i fattori di antagonismo politico continuano a rendere ardua quella concertazione di strategie di sviluppo necessaria per giungere all'integrazione fra i cinque paesi o almeno fra alcuni di loro. Il fluttuante atteggiamento della Libia e il ruolo « centrale » dell'Algeria. La crisi del Sahara. I rapporti con la Cee i problemi della sicurezza nel Mediterraneo. Sul ruolo dell'Europa verso i paesi maghrebini una nota di Edgard Pisani.



Abbiamo assistito di recente, tra i paesi maghrebini, a una fitta serie d'incontri in cui è stata tentata non solo una fallita me­diazione tra Algeri e Rabat, ma anche un ennesimo rilancio del progetto d'integrazio­ne del « grande Maghreb » nella sua acce­zione più estesa, e cioè comprendente, ol­tre a quel nucleo centrale che è costituito da Algeria, Tunisia e Marocco, anche Libia e Mauritania. I motivi di contrasto sono tuttora troppo rilevanti perché si possa ipo­tizzare a breve termine la realizzazione di questo obiettivo. Tuttavia l'insistenza con cui esso viene riproposto dopo ogni perio­do di più acute tensioni, e d'altra parte l'im­portanza che la sua attuazione potrebbe as­sumere per gli equilibri mediterranei e afri­cani, inducono ad una indagine sulla reale entità dei fattori di attrazione e di repul­sione inerenti a questo tenace mito orientatore.
Alla base di una appartenenza al Magh­reb sancita dalle rispettive Costituzioni, an­che il gruppo dei tre non ha alcuna tradi­zione di unificazione statuale, avvenuta sol­tanto per breve tempo (poco più di mezzo secolo) sotto l'impero degli Almohacli: oltre allo spazio geofisico, ha in comune soprat­tutto la cultura inerente a una medesima et­nia originaria (il mondo berbero) e alle me­desime sovrapposizioni esterne, dai fondaci e le città fenice alla conquista romana, alla profonda penetrazione e acculturazione ara­ba, alla amministrazione ottomana (salvo in Marocco) e infine alla medesima occupa­zione coloniale: insomma, una histoire-objet, per riprendere una espressione di Laroui, in gran parte definita da connotazioni e col­legamenti esterni. Una fusione statuale ap­pare oggi totalmente utopistica: non però quella concertazione politica ed economica, di cui viene periodicamente avvertila l'esi­genza.
Il tentativo d'integrazione del Maghreb ha assunto una forma istituzionale, per quanto ancora embrionale, soltanto lungo gli anni '60. Non sarà inutile ripercorrere l'iter di questi tentativi, e i termini in cui è stato affrontato il problema, per indi­viduare su quali elementi coagulanti ve­nisse posto l'accento, e quali siano stati i più gravi fattori di blocco, a parte i mo­tivi contingenti di tensione e di conflitto: tra questi ultimi, il contenzioso riguardante la frontiera algero-marocchina, sfociato nel 1963 in un conflitto armato e solo formalmente composto nel 1969 — senza porre termine alle rivendicazioni marocchine — dal trattato di Ifrane; e, molto meno viru­lenti, quelli riguardanti le frontiere algero-tunisina e algero-libica.
Se l'entità « Maghreb » è stata spesso presente nella terminologia dei movimenti anticolonialisti dei tre paesi, il problema del­l'integrazione viene posto per la prima vol­ta, nel 1958, alla Conferenza di Rabat, in­detta, per consentire una omologa parteci­pazione algerina, non dai governi ma dai partiti: PIstiqlal, il Néo-Destour e il Fin. In questa sede, veniva addirittura auspicata una soluzione federativa, che avrebbe do­vuto essere preparata da una comune e mai istituita « Assemblea consultativa del Maghreb arabo » emanata dai due partiti go­vernativi e dal Fln.
Nel 1964, la Conferenza dei ministri mag-hrebini dell'Economia, riunita a Tangeri, dava al progetto una prima base istituzio­nale impegnandosi a periodiche riunioni, e creando un organo permanente, il Consiglio consultivo del Maghreb, affiancato da vari comitati tecnici e incaricato di "promuovere il coordinamento dei piani di sviluppo... preparare le condizioni di una armonizza­zione industriale... e precisare le basi di un quadro multilaterale per scambi commer­ciali privilegiati ». Al protocollo di accordo, firmato a Tripoli nel 1965, aderiva anche la Libia. Nel 1967, il Comitato presentava alla Conferenza ministeriale un primo pro­getto, che, esplicitamente scartando il mo­dello Cee, optava per una integrazione pro­gressiva, fondata sulla interazione tra una graduale liberalizzazione degli scambi e l'ar­monizzazione dei processi di industrializza­zione, e sulla creazione di una Banca mag-hrebina d'integrazione per il finanziamento di progetti comuni. Incaricato di approfon­dire questa formula, il Comitato presentava nel 1970 un progetto definitivo alla Con­ferenza di Tangeri, dove l'approvazione ve­niva evasivamente rinviata ad ulteriori ap­profondimenti. Nel frattempo, in seguito al colpo di stato del 1969, era avvenuto il ritiro della Libia che, attirata ormai dalla costituzione di un « fronte tripartito » con la Rau (Egitto) e il Sudan, criticava aspra­mente, sul piano politico, il progetto magh-rebino. Lentamente, l'attività del Comitato si arenava. Sul piano multilaterale, i risul­tati si limitarono ad alcuni accordi nel set­tore dei trasporti; e a questo livello, il ten­tativo d'integrazione sembrò definitivamen­te tramontato.
Questa vicenda potrebbe indicare semplicemente la non praticabilità della inte­grazione perseguita, se contemporaneamente non si fosse costituita quella che possiamo definire, con Bruno Etienne, come una fit­tissima rete di « accordi bilaterali a più », generalmente formulati in nome della per­seguita unione maghrebina, e a proposito dei quali uno degli organismi comuni creati negli anni '60 poteva addirittura parlare di « ipertrofia »: quasi che appena si apriva uno spiraglio nel quadro delle ricorrenti tensioni, venisse subito a emergere una spontanea tendenza al collegamento e alla interpretazione. Dal 1963 al 1970, si con­tavano così tra i paesi maghrebini quat­tro accordi di fraternità, buon vicinato e co­operazione (oltre a quelli già esistenti in precedenza tra Tunisia e Libia e Tunisia e Marocco), e sul piano delle convenzioni ri­guardanti specifici settori, 27 accordi Alge­ria-Marocco, 40 Algeria-Tunisia, 12 rispet­tivamente Algeria-Libia e Libia-Marocco, e vari rilevanti accordi Tunisia-Libia. Paral­lelamente, con movimento spontaneo, si mol-tiplicavano le associazioni intermaghrebine di carattere professionale. Il fenomeno con­tinuava negli anni '70, ma le ricorrenti ten­sioni Libia-Marocco, giunte ad una totale rot­tura in relazione ai tentati colpi di stato in Marocco del 1971 e 1972, le fluttuazioni dei rapporti libici con la Tunisia (dalla fusione annunciata a Gerba nel 1974 e immediata­mente contraddetta, alle tensioni per la piat­taforma continentale e al non smentito inter­vento libico di Gafsa) e infine, dal 1975, la nuova crisi dei rapporti algero-marocchini in relazione al Sahara occidentale, venivano a circoscriverne l'ambito, lasciando piena e cre­scente esplicazione al bilateralismo soltanto tra Algeria e Tunisia.
Per quanto riguarda la Libia, si deve sot­tolineare che k sua ricorrente aspirazione alle « fusioni » — dal tentativo di Gerba al­la « unione arabo-africana » sancita nel 1984 dalla convenzione di Oujda con il Marocco — si è rivelata, ai fini della integrazione magh­rebina, non meno pericolosa delle sue impen­nate aggressive, in quanto è stata ogni vol­tai — e non senza motivo — avvertita dal­l'Algeria come un tentativo di contrastare la sua influenza regionale, perenne oggetto di malcelata rivalità tra i due paesi, riducendo Algeri a un sostanziale isolamento. È chiara d'altra parte l'importanza strutturale che as­sume, per qualsiasi progetto maghrebino, la soluzione del problema del Sahara, problema-chiave che investe direttamente la Maurita-nia, passata dall'alleanza marocchina a quel­la algerina, e che può esercitare una influen­za determinante sui futuri equilibri di tutta la regione.
Comunque, dal 1970, l'unica iniziativa di rilievo realizzata all'insegna del « grande Maghreb » è stata segnata, nel 1983, dal nuo­vo « accordo di fraternità e concordia » tra Algeria e Tunisia dichiaratamente aperto a tutti i paesi della regione, e che otteneva ra­pidamente l'adesione della Mauritania.

I fattori economici

Se la interpenetrazione fra i « tre » sem­bra spontaneamente suggerita dalla omoge­neità dell'ambiente geofisico e dall’indistin­zione delle frontiere (comune quest'ultima ai « cinque » del « grande Maghreb »), a tale omogeneità è innanzi tutto connessa una analogia di produzioni che certamente non facilita l'accordo. Rifiutando il modello Cee, il Comitato permanente consultivo aveva mo­strato di comprendere chiaramente che i fat­tori di complementarità indispensabili ad ogni liberalizzazione commerciale non pote­vano in alcun modo considerarsi nel Maghreb come un dato, ma dovevano interamente co­struirsi per decisione politica attraverso una concertazione delle strategie di sviluppo e in particolare di industrializzazione, che por­tasse sia ad una specializzazione concordata, sia alla definizione di progetti comuni.
È chiaro che ciò poteva risultare più fa­cile negli anni '60, quando la ristrutturazio­ne delle economie, appena emerse dal colo­nialismo, era in fase iniziale, mentre risulta oggi notevolmente ardua non solo per la ri­petitività e dunque la concorrenzialità di mol­te strutture produttive nel frattempo create, ma anche per il timore, da parte dei paesi meno avanzati, che il diverso stadio di indu­strializzazione possa facilmente tramutare la perseguita armonizzazione in una gerarchizzazione concordata o inevitabilmente imposta per quanto riguarda la divisione del lavoro. Del resto, già nel 1972 il testo citato delle Ecoles d'administration osservava come tra e possibili soluzioni, si dovesse scartare una « regionalizzazione » dei settori, che avrebbe inevitabilmente assegnato l'industria di base all'Algeria e i servizi alla Tunisia — indub­biamente la più ricca di quadri — confinando il Marocco all'agricoltura o al massimo all'agro-industria. A questo riguardo, la situazio­ne non è mutata. D'altra parte, si può aggiun­gere che una sensibile riserva algerina nasce dall'opposto timore che l’« armonizzazione » perseguita possa implicare una riduzione dei suoi piani di sviluppo e una nuova distribu­zione di certe attività, che l'Algeria ha finora considerato come specificamente proprie.
Inoltre, un complesso problema nasce sul piano delle strutture economiche e dei modi di produzione. Già nel 1970, tra i problemi accantonati dalla Conferenza di Tangeri, era l'obiezione sollevata dall'Algeria quanto al­la difficoltà di realizzare la perseguita inte­grazione tra una economia sempre più risolu­tamente statalizzata e due sistemi che lascia­vano libero gioco alla iniziativa privata. È difficile prevedere quale sarà la misura di quella parziale privatizzazione dell'economia che è stata finora prospettata in Algeria a livello teorico, ma la cui definizione concre­ta è ancora oggetto di discussioni, che hanno contribuito al lungo ritardo subito dalla pub­blicazione del piano di sviluppo 1985-87. Certamente, tale misura sarà ben lontana dal liberismo tunisino e marocchino: tuttavia, anche circoscritto, il processo potrebbe con­tribuire a una capillare interpenetrazione a livello di piccola e media impresa, soprattutto in certi settori dell'industria leggera.
Sul piano economico, i caratteri più evi­denti dei tre paesi sono indubbiamente il ca­rattere concorrenziale di molte produzioni, e, d'altra parte, le medesime carenze. A que­sti fattori si deve in gran parte ascrivere la modestia dei progressi registrati dall'inter­scambio.
Rinunciamo a presentare un quadro della situazione perché le statistiche dell'ultimo decennio risultano in proposito non solo la­cunose ma estremamente contraddittorie: si vedano ad esempio quelle fornite dagli an-nuari del Gatt, dove i dati sono totalmente diversi — evidentemente per la discordanza delle fonti nazionali — a seconda del paese di riferimento. L'elemento che ne risulta più chiaramente è comunque l'estrema instabilità delle correnti di scambio, sia come conseguen­za delle tensioni politiche, sia per motivi strutturali: le fluttuazioni sono infatti tali da presentare, da un anno all'altro, sensibili impennate e altrettanto brusche cadute, e da rendere perciò impossibile l'individuazione di qualsiasi linea di tendenza. In generale, le punte più alte dell'ultimo quinquennio (tra i 50 e i 100 milioni di dollari) si presentano nelle importazioni algerine e libiche dalla Tu­nisia, tunisine dalla Mauritania e marocchine dalla Libia: le due ultime prevalentemente relative al ferro e al petrolio, mentre sulle prime incidono fortemente manufatti di con­sumo.
Questi caratteri di concorrenzialità e di comune carenza sono innanzi tutto evidenti nel settore alimentare, dove d'altra parte Li­bia e Mauritania presentano mercati troppo ristretti per offrire sufficiente sbocco alle produzioni eccedentarie dei tre, e condizioni climatiche totalmente inadatte a contribuire al superamento del deficit alimentare. I soli elementi di complementarità maghrebina nel settore agricolo rimangono finora affidati al­l'assorbimento libico, soprattutto di olio d'o­liva tunisino, e alla crescente produzione ma­rocchina di zucchero di barbabietola, di coto­ne e di ortofrutticoli. Ancora insufficienti a coprire un mercato maghrebino integrato, i tessili, i prodotti d'abbigliamento e i pellami (già oggetto di esportazioni regionali marocchine e tunisine), e i prodotti di consumo cor­rente (bibite, conserve, prodotti casalinghi), hanno finora seguito moduli fortemente ri­petitivi; ma potrebbero essere oggetto di una specializzazione integrata, che ne potenzie­rebbe l'interscambio. È chiaro che per i tes­sili, ciò sarebbe possibile soltanto sottraen­do il settore a quella integrazione « vertica­le » di cui esso è divenuto progressivamente oggetto tanto in Tunisia come in Marocco.
Già l'industria leggera, che l'Algeria ten­de nuovamente a potenziare, potrebbe dunque essere oggetto di un'azione capillare miran­te alla complementarità delle produzioni. Ma una più profonda integrazione dovrebbe es­sere affidata a quei due pilastri dell'economia maghrebina che sono i prodotti minerari ed energetici, risorsa fondamentale sulla quale si è fondato nei tre paesi gran parte dello sforzo d'industrializzazione, ma i cui processi di trasformazione in loco sono ancora a uno stadio scarsamente avanzato.
Dai documenti maghrebini di studio alle analisi degli esperti è stato spesso sottoli­neato come la frequente esistenza di giaci­menti minerari (petrolio, fosfati, ferro, piom­bo, zinco, argilla) in prossimità dell'una o del­l'altra frontiera abbia indubbiamente contri­buito, in certi casi, a esasperare il conten­zioso inerente alla definizione dei confini, ma d'altra parte possa costituire una base prezio­sa per iniziative comuni. E infatti, se nessuna pianificazione è intervenuta in proposito sul piano multilaterale, tale possibilità emerge concretamente da vari accordi bilaterali. In questa direzione vanno appunto due tra i più importanti progetti concordati nel quadro del­la convenzione algero-tunisina del 19 marzo 1983, e relativi a due impianti comuni situa­ti sul confine, in corrispondenza ai giacimenti della rispettiva materia prima (un impianto a Kalaat per la lavorazione del lithos, e un cementificio a Feriana): progetti che verran­no a costituire, insieme a una fabbrica co­mune di motori diesel a Sakiet Sidi Youssef, un rilevante complesso di produzioni con­giunte. Ricordiamo inoltre come parallela­mente al gasdotto Algeria-Italia attraverso la Tunisia — che viene così a beneficiare di forniture agevolate e di royalties — sia sem­pre sul terreno, sebbene accantonato a causa sia delle tensioni Algeri-Rabat, sia delle di­vergenze sorte tra Algeri e Madrid quanto alle fornitore di gas, il progetto di un ana­logo gasdotto tra l'Algeria e la Spagna attra­verso il Marocco. D'altronde, per quanto ri­guarda le risorse naturali, molti spunti me­todologici estremamente positivi emergono già dalla rete fittissima di accordi stipulati, come ricordavamo, lungo gli anni '60 e talora successivamente insabbiati.
Il settore delle materie prime è stato dun­que spontaneamente oggetto di varie forme di cooperazione chiaramente individuabili tra le maglie della rete disordinata e quasi casuale di accordi bilaterali via via stipulati: forme che vanno dalla produzione al trasporto al commercio alla trasformazione, che possono inserire i paesi meno favoriti in una complessa rete di attività collegate al prodot­to, d'altra parte facilitando, attraverso una convergenza delle forze intorno ad una razio­nale pianificazione, il raggiungimento di stadi più avanzati di lavorazione.
Tra i paesi maghrebini, soltanto l'Algeria consuma al suo interno il 45% della pro­pria produzione energetica e mineraria, men­tre i prodotti degli altri paesi sono in mas­sima parte esportati. Ora, esistono in questo settore, per i paesi maghrebini, anche alcu­ni elementi di possibile complementarità (il petrolio, presente solo in misura insignifican­te in Marocco, a sua volta invece esportato­re regionale di carbone e di argilla; la pro­duzione di fosfati, altissima per il Marocco, primo esportatore mondiale, abbastanza rile­vante in Tunisia, modesta in Algeria e as­sente in Libia; il ferro, fondamentale risor­sa della Mauritania e base strutturale della strategia industriale dell'Algeria, che può i-noltre esportare parte del minerale; il piom­bo, esportato da Marocco e Tunisia, e per il Marocco, lo zolfo e il cobalto), come esisto­no, per alcuni di questi prodotti e per altri, sovrapposizioni non insignificanti.
In campo commerciale, un esperimento di estremo interesse veniva realizzato negli an­ni '60 con la creazione del Comptoir Magh-rébin de l'Alpha, costituito nell'ambito degli accordi di Tangeri, e concretamente funzio­nante fino al rallentamento e infine al blocco negli anni 70. Compito del Comptoir fu la definizione di un prix-plancber, che i paesi aderenti s'impegnavano ad onervare, e di con­tingenti d'esportazione, superando i quali il ricavato eccedentario doveva essere distribuito tra tutti i paesi membri. Sarebbe certa­mente utopistico pensare ad una formula a-naloga per le materie prime minerarie: molto meno irrealistico, tuttavia, prevedere una complessa interazione di accordi di fornitura, processi comuni di trasformazione, agevola­zioni per il trasporto e, ove coincidano gli interessi, una strategia concordata per la commercializzazione con l'estero.
Per ragioni di spazio non ci soffermiamo su altri settori come la cooperazione tecnica (con particolare riguardo al settore dell'i­struzione) che ha avuto e potrebbe ritrovare notevole sviluppo negli accordi intermaghre-bini; e i trasporti marittimi, che costituisco­no indubbiamente, insieme al libero uso re­ciproco delle attrezzature portuali, uno dei settori privilegiati per la cooperazione regio­nale.
Concludendo, si può affermare che sul piano economico, l'integrazione maghrebina non è spontaneamente indotta dalle cose, ma appare certamente possibile qualora diven­ga una reale opzione politica. Dalla Confe­renza di Tangeri e dal trattato del 1974, do­ve figurano tra le clausole fondamentali, due esigenze hanno sempre esplicitamente domi­nato gli accordi intermaghrebini: la defini­zione di una posizione comune nei confronti della Cee, e la concertazione delle politiche commerciali nei confronti dei paesi terzi. Si tratta di esigenze che nascono da una proie­zione verso l'esterno insita nella struttura geopolitica come nell'economia e infine nella cultura del Maghreb, « finis terrae » del mon­do arabo — per citare un'altra definizione di Laroui — e come tale, delicata zona di sutura tra l'Europa, verso la quale l'inclina la sua dimensione mediterranea, e l'Africa sub­sahariana. La complessa e variabile interse­zione di queste dimensioni è elemento deter­minante per una eventuale integrazione mag­hrebina, alla quale i fattori politici appaiono al tempo stesso come il massimo ostacolo e un permanente incentivo.

I fattori politici

II Maghreb può considerarsi come il pun­to d'intersezione di varie catalizzazioni: ara­ba (ed arabo-islamica), africana, europea e mediterranea. Su ognuna di queste diverse direttrici, sono apparsi di volta in volta fat­tori di convergenza e di antagonismo, scelte ed alleanze contraddittorie, contrapposte ten­denze all'espansione o alla leadership, che hanno fortemente inciso sulle relazioni in-termaghrebine, e su cui queste hanno a loro volta esercitato una influenza determinante.
Di queste diverse variabili, la più stabile è senza dubbio, ai fini del rapporto inter-maghrebino, la componente islamica, quale riconosciuta appartenenza che unisce tutti i paesi in una comune radice culturale. Que­sta però viene sentita e gestita dalle rispet­tive élites in modo profondamente diverso. Un modo problematico e tormentato per l'Al­geria, dove la necessità di conciliare fedeltà all'Islam ed esigenze di modernizzazione, cul­tura autoctona e immissioni esterne, è ogget­to di una dialettica vissuta con profondo im­pegno, e tradotta in un dibattito costante e talora aspro, che incide profondamente sul costume: si può dire, del resto, che questa problematicità abbia trovato una espressione quasi emblematica in quel personaggio com­posito è talora sconcertante che è stato Boumediene, con la sua commistione di mistici­smo gelido e di lucido pragmatismo.
Un modo pacato e controllato per la Tu­nisia, dove l'islamismo è stato tranquillamen­te assunto dal gruppo dirigente come un dato culturale di fondo dal quale si doveva muo­vere anche quando si trattava d'infletterlo o contraddirlo (è noto l'uso fatto da Bourguiba dei testi del Corano per avallare le più ardite laicizzazioni, quali la profonda trasformazio­ne dello status della donna). In certo senso, si potrebbe equiparare la « islamicità » delle élites tunisine, esente da rigidi conformismi come da reali contestazioni, alla « cattolici­tà » di certi notabili italiani: e forse è pro­prio questo tipo di rapporto che ha reso la Tunisia particolarmente adatta a presiedere, in un ruolo pacatamente mediatore, quell'or­gano di azione politica che è la Conferenza islamica.
Infine, altrettanto specifico è il rapporto mantenuto dal regime marocchino con l'Islam: da un lato quasi appannaggio della di­nastia alaouita, di cui garantisce la legittimità e che sola ne tutela a proprio arbitrio l'orto­dossia — e d'altra parte, profondamente ra­dicato in quel ceto di notabili che ha dato a suo tempo origine all'Istiqlal, e che ha impresso su tutta la politica marocchina una impronta non facilmente obliteratale.
Tale posizione, d'altra parte, non è omo-logabile a quella di Gheddafi, che potrebbe dirsi profeta di una nuova comunità più che paladino dell'ortodossia islamica, e come tale, dunque, privo di una autorità « referente », e sostanzialmente isolato. Il Marocco è per­tanto, dei tre paesi maghrebini, l'unico per il quale l'Islam costituisce una diretta com­ponente della sfera del potere, e dunque l'unico che ne abbia fatto anche una conno­tazione della sua politica estera, innanzi tutto svolgendo, con l'Arabia Saudita, un ruolo de­terminante nella fondazione della Conferen­za islamica, e con questa appartenenza carat­terizzando il suo rapporto privilegiato con i paesi del Golfo. L'affermazione di laicità della politica lanciata, quasi a sfida, da Boumediene alla Conferenza di Lahore nel 1974, esprimeva insieme il dissenso dalla rete di alleanze e dalla strategia insita in quella ope­razione, ma anche un profondo divario cul­turale: elementi ambedue presenti nelle ten­sioni politiche algero-marocchine. L'antago­nismo inerente a quelle alleanze ha d'altron­de trovato diretta espressione in relazione al Sahara occidentale, dove il massimo con­senso islamico — dal Medio Oriente al Gol­fo e all'Africa subsahariana — va alle tesi marocchine.
Quanto detto finora si riferisce soltanto a quello che è stato l'atteggiamento preva­lente dei tre paesi sul piano ufficiale e nella cultura delle élites: quanto a quell'ondata di fondo ancora confusa e sostanzialmente com­posita che è costituita dai nuovi movimenti islamici di base, è chiaro come essi abbia­no una fondamentale componente comune nelle frustrazioni seguite ad una indipenden­za attesa come una palingenesi, e nella con­testazione che ne deriva nei confronti dell'at­tuale autorità politica e religiosa. Allo stesso modo, sono chiari i filoni fondamentali e ta-lora contrapposti in cui si inseriscono quei movimenti: meno facile individuare i carat­teri specifici eventualmente connessi, in o-gni paese, al diverso atteggiamento dei tre regimi, e gli scenari che ne potrebbero even­tualmente derivare.
La principale motivazione con cui la Libia, nel 1970, si staccava dall'intesa maghrebina, fu l'affermazione che un accordo particolare tra un gruppo di paesi arabi veniva a con­traddire il grande ideale del panarabismo, e ad allontanarne la realizzazione.

Tensioni con il Machreq

Ora, mentre la Libia e il Marocco, anche se su versanti politicamente opposti, hanno ge­neralmente mantenuto con il Machreq (i pae­si dell'Oriente arabo, cioè la regione medio­rientale), tanto sul piano « islamico » come sul terreno internatale, rapporti costanti e spesso molto intensi, si può invece notare in Algeri come in Tunisi una accentuata dif­fidenza nei confronti di qualsiasi programma panarabo: diffidenza nata in parte dal sospet­to che vi si celasse — nella strategia di Nasser come nelle disordinate improvvisazioni di Gheddafi — una sostanziale volontà di lea­dership regionale; ma anche determinata da profonde radici storiche e culturali, che ge­nerano in ognuno dei due paesi (e nel caso dell'Algeria, non senza le profonde lacerazio­ni interne culminate nella dissidenza cabila) un profondo attaccamento alla propria spe­cificità. È un atteggiamento che ha spesso cercato nella storia i suoi simboli, ricorren­do per esempio alla resistenza di Giugurta (nome emblematico spesso ricordato da Bourguiba e significativamente riproposto nel no­vembre 1983 da Chadli Benjedid, nel discor­so di apertura del congresso del Fln).
Nei primi anni d'indipendenza, la Tuni­sia è rimasta così sostanzialmente estranea non solo al panarabismo ma allo stesso Mach­req, da essere indotta, in ostilità alla politica di Nasser, ad abbandonare la Lega araba; e se al contrario vi ha acquisito, negli anni 70, una funzione di sempre maggiore rilievo (tan­to da pervenire, come nella Conferenza isla­mica, alla segreteria generale) è stato soprat­tutto grazie a quella capacità mediatrice che costituisce la connotazione più costante ed esplicitamente teorizzata della sua politica e-stera, e che spesso ha trovato il suo punto di forza — specialmente in relazione al con­flitto arabo-israeliano — proprio in una certa distanza, in cui una posizione nettamente pro­occidentale si abbinava a un convinto neu­tralismo.
Quanto all'Algeria, i suoi rapporti con il Machreq sono stati segnati da una costante diffidenza per le aspirazioni egemoniche di volta in volta evidenti nelle strategie del Cai­ro, di Baghdad o in altra forma di Riyadh (diffidenza pari, del resto, a quella nutri­ta e a malapena celata nei confronti dello scomodo vicino Gheddafi). Ciò ha condot­to l'Algeria ad una sostanziale estraneità ai giochi interarabi che le ha talora consen­tito efficaci mediazioni tendenti appunto a ri­dimensionare qualche tentativo espansionistico (come nell'accordo promosso nel 1975 tra Iran e Iraq). D'altronde, un'osservazione più attenta può individuare questa funzione mediatrice anche nell'azione costantemente svolta da Algeri tra le opposte fazioni create dal conflitto arabo-palestinese, in qualità di moderatore dei « radicali » nell'ambito del « fronte del rifiuto ».
Quanto al Marocco, la sua volontà di stret­to inserimento nel mondo arabo ha talora indotto Hassan II a un certo « protagoni­smo » anche in relazione al conflitto arabo-israeliano, come nel caso della Conferenza di Fès o nel simbolico invio di truppe, mai arri­vate al fronte, in occasione della « guerra di ottobre ».
In generale, si può dire che i rapporti con il resto del mondo arabo non contribuiscano alla convergenza tra i paesi del Maghreb: e ne troviamo un esempio recente nelle diver­genti posizioni cui ha dato luogo il conflit­to Iran-Iraq, e che sarebbe superficiale attri­buire soltanto ad una scelta di tipo bipolare. Nel caso della Libia e del Marocco, si può tuttavia parlare di una certa omologia « cul­turale » anche se tradotta, sul piano politico, in scelte antagoniste, che hanno indubbia­mente contribuito alla latente o dichiarante conflittualità da cui sono sempre stati ca­ratterizzati, fino all'accordo dell'estate 1984, i rapporti tra i due paesi. Nell'attuale volontà libica di uscire dall'isolamento — che è stata indubbiamente, per Tripoli, la motivazione dominante di quell'accordo — quella omo­logia può fornire però ai due paesi una non fragile base d'intesa.
Tale base, invece, è sostanzialmente assente per quanto riguarda le relazioni di Rabat con la Tunisia e l'Algeria: tuttavia, nel quadro dei rapporti con il Machreq, appaiono fra i tre paesi molti motivi di divergenza, ma nessuno di dichiarato conflitto, e alcuni ele­menti d'intesa (tra i quali l'incondizionato riconoscimento dei diritti del popolo palestinese) che una intensificazione del rapporto intermaghrebino potrebbe notevolmente svi­luppare.

I rapporti con l'Africa subsahariana

II settore più carico di elementi antagoni­sti, comunque, è sempre stato e rimane, per i paesi del Maghreb, l'Africa subsahariana. Salvo rari momenti di convergenza, le stra­tegie africane dei paesi maghrebini si sono sempre più sviluppate secondo linee divari­canti, lasciando sussistere una certa omoge­neità soltanto fra Tunisia e Marocco. Da par­te tunisina, l'esistenza di un rapporto privi­legiato con l'Africa nera era stato fin da prin­cipio teorizzato come una componente strut­turale risalente all'impero Almoravide, e per­tanto come una dimensione fondamentale di quella funzione di tramite tra vari mondi (e in particolare tra l'Africa e l'Europa) che si era consolidata lungo millenni di storia.
A questo tipo di approccio, aveva corrispo­sto nei primi anni '60 una vasta strategia di accordi bilaterali, che si è andata poi gradatamente circoscrivendo all'area delle intese tra « francofoni » promosse dalla Francia. Questo ha determinato un sostanziale alli­neamento con la politica di Parigi (e più in­direttamente con quella di Washington) nei confronti dei vari conflitti africani: tuttavia, con quella cautela che caratterizza la politica tunisina, sempre aliena da clamorose scelte di campo. Di qui, anche la ricerca di mezzi indiretti d'azione, come il tentativo, svolto in collaborazione con il Senegal, di coagulare quel gruppo sostanzialmente conservatore e filoccidentale che va sotto l'etichetta del « socialismo africano »: e d'altra parte, l'a­zione di coordinamento e di promozione svol­ta per la creazione di una agenzia africana di informazione, secondo l'esigenza polemica­mente avanzata in varie sedi internazionali dall'ala « progressista » del Terzo mondo.
Ben più recisamente univoca, la politica marocchina è sostanzialmente caratterizzata, più che da autonoma strategia, da diretti in­teressi congiunturali. All'inizio degli anni '60, si è trattato della volontà di bloccare la costituzione di uno Stato mauritano indipen­dente appoggiata dagli Stati africani conser­vatori: esigenza che ha costituito uno degli incentivi determinanti per l'inserimento del Marocco — con decisione indubbiamente ar­dita per un regime come quello alaouita — in quel fronte dei radicali che avrebbe pre­so il nome di « gruppo di Casablanca » (1961), e per l'attiva adesione al panafrica­nismo di Nkrumah. A parte la brusca svolta segnata successivamente dall'inserimento ma­rocchino nell'ambito « francofono », la po­litica subsahariana di Hassan II si può dire sostanzialmente inesistente per un decennio, e cioè fino al momento in cui la questione sa­hariana avrebbe dato nuovo impulso alla ri­cerca di appoggi africani: questa volta, con­trariamente a quanto era avvenuto per la Mauritania, nel vasto fronte dei paesi con­servatori. Da allora, abbiamo assistito alle più clamorose esibizioni di attivo appoggio alla strategia africana dell'Occidente e in par­ticolare della Francia, dal concreto sostegno al Fina durante la guerra civile angolana al­l'invio di truppe nello Shaba (Zaire), alle periodiche offerte d'intervento nel Sudan in funzione direttamente antagonista rispetto alla politica di Gheddafi. Se questa seconda strategia ha creato sensibili tensioni con la Libia, soprattutto per quanto riguarda la zo­na di sutura fra Nord Africa e Africa nera, è evidente che la contrapposizione con l'Al­geria, già inerente a ciascuna di queste scel­te, è stata esasperata dal dissenso sul Saha­ra occidentale, schierando i due paesi su due fronti africani contrapposti.
Si deve tuttavia sottolineare un particola­re di rilievo: se l'uno e l'altro incentivo a quelle opposte politiche — questioni della Mauritania e del Sahara occidentale — sono strettamente inseriti nella regione maghre-bina e, indirettamente, nella sfera degli inte­ressi arabi, in ambedue le strategie successi­vamente adottate, il Marocco ha potuto isti­tuire con preciso collegamento con il Machreq: per la prima fase, attraverso la coinci­denza nella politica panafricanista, e per la seconda attraverso la coincidenza con la po­litica africana che la Conferenza islamica, sebbene prioritariamente interessata agli e-quilibri del Corno, svolge tuttavia anche nel­l'Africa occidentale e particolarmente nel Sahel.
In certo senso, si può dire che non esista nella politica marocchina un concreto disegno africano se non subordinatamente a un pro­getto nazionale in cui convergono interessi economici attuali e reminiscenze di una tra­dizione imperiale, e che esige per la sua rea­lizzazione un retroterra africano relativamen­te sicuro, pure cercando altrove, e soprattutto nel mondo arabo, i suoi punti di riferimento. Questa intersezione contribuisce talora a esa­sperare le tensioni intermaghrebine e inter-arabe attraverso complesse proiezioni subsa­hariane: tuttavia, questo carattere per così dire derivato della politica africana di Rabat rende più credibile l'ipotesi che una mag­giore integrazione maghrebina possa provoca­re un notevole allentamento delle tensioni attualmente presenti rispetto al quadrante africano, d'altra parte contribuendo alla sua stabilizzazione.
Se i contrasti inerenti alla politica maroc­china sono indubbiamente i più esplosivi, bi­sogna tuttavia osservare che soltanto la Tu­nisia appare aliena da qualsiasi rischiosa e lacerante gara con i suoi vicini nei confronti dell'Africa subsahariana. Infatti tra Libia e Algeria esiste indubbiamente una rivalità che non è mai arrivata al conflitto, e anzi, viene generalmente mascherata dalle supposte con­vergenze con cui i due paesi si presentano programmaticamente in alcuni settori della scena internazionale, ma che potrebbe domani trasformarsi in divaricazioni.
Ambedue i paesi svolgono una politica afri­cana che può considerarsi come totalmente autonoma, e tendente ad esercitare una in­fluenza tous azimouts. Nel caso di Gheddafi, è una politica abbandonata come sempre, e forse più che in altre regioni, all'improvvisa­zione (dall'appoggio prioritario corrisposto a Mobutu e Amin, ai reiterati interventi nel Ciad, alle azioni di disturbo nei confronti del Sudan) e prevalentemente condotta attraver­so strumenti finanziari: crediti, joint-ventu-res, aiuti. Nel caso dell'Algeria, si tratta in­vece di una vasta politica organicamente per­seguita sotto i suoi tre successivi leaders, e che ha condotto a una fittissima rete di ac­cordi bilaterali di cooperazione. Ma ovvia­mente, da parte di ambedue i paesi, lo sforzo di penetrazione è più accentuato nella regio­ne subdesertica, dove l'intervento libico nel Ciad ha aggravato una delle più complesse cri­si africane, e dove l'Algeria ha costituito una cooperazione organica con il gruppo dei « pae­si rivieraschi del Sahara »: e appunto su que­sto terreno non sono da escludere possibili
frizioni tra Algeri e Tripoli, e una permanen­te diffidenza.
Anche nel caso della Libia, i rapporti con il Machreq esercitano una costante interazio­ne con le sue scelte subsahariane, dal Corno al Ciad. Questo fattore si può invece consi­derare, anche a questo riguardo, del tutto assente dalle posizioni algerine. Possiamo ri­cordare che dall'aumento dei prezzi del pe­trolio, Algeri ha tenuto a svolgere un ruolo di promozione ai fini di una cooperazione multilaterale tra mondo arabo e mondo afri­cano, ma ha voluto mantenere così totalmen­te la propria autonomia rispetto all'interven­to arabo, da istituire un proprio fondo per l'Africa affiliato bensì alla Banca araba per lo sviluppo africano — unica espressione concreta di quella cooperazione — ma da questa indipendente nelle sue scelte. L'ele­mento dominante nel rapporto algerino con l'Africa subsahariana, oltre al costante appog­gio a tutti i movimenti anticolonialisti, si può individuare nel fatto che il continente africa­no costituisce il primo referente per quel ruo­lo di paese-guida del Terzo mondo nei con­fronti del Nord industrializzato che è stato la massima aspirazione di Boumediene e cui l'Algeria non sembra malgrado tutto rinun­ciare.
Lo scenario internazionale
Nell'insieme, la strategia subsahariana dei quattro paesi (nei confronti dei quali la Mau-ritania ha comunque un ruolo minore) pre­senta dunque numerose incognite. Tuttavia, non è da escludere che una composizione della questione sahariana possa ricondurre il Ma­rocco alla relativa estraneità dimostrata in passato per le vicende dell'area. La impreve-dibilità dell'azione di Gheddafi rende meno facile l'individuazione di uno scenario per quanto riguarda la possibile rivalità libico-al­gerina nella regione subsahariana: tuttavia, l'assenza di specifiche connotazioni politiche di tale azione — salvo quelle connesse alla dia­lettica interaraba — può accentuare anche per Tripoli l'influenza di un consolidamento de­gli accordi intermaghrebini.
Infine, rimane da esaminare la catalizza­zione europea. Se essa ha dominato, come abbiamo ricordato, le intese maghrebine del 1964 e 1970, la preparazione dei nuovi accordi Cee-Maghreb è stata un fattore priori­tario, insieme alle prospettive aperte alla Con­ferenza di Helsinki, nei tentativi di rilan­cio che hanno dato luogo nel 1972 a una nuova serie di incontri al vertice. È una ca­talizzazione che nessuno dei tre governi ha mai messo in questione. Sostanzialmente, tale posizione non è mutata né di fatto, né per quanto riguarda le strategie di Algeri, di Tunisi e di Rabat.
La recente politica libica nei confronti del Marocco, che lascia intravvedere in Tripoli un crescente bisogno di uscire dall'usuale ruo­lo di chevalier setti, e alcuni sintomi di avvi­cinamento diretto, possono fare ipotizzare anche in Gheddafi una maggiore attenzione all'Europa, che sarebbe indubbiamente stimo­lata da un avvicinamento intermaghrebino. In generale, le divergenze più pericolose sono sorte finora, come abbiamo visto, non per qualche sintomo di allontanamento dall'Eu­ropa, ma nell'ambito della catalizzazione eu­ropea, per una incondizionata adesione alla strategia di un solo Stato, la Francia, e nei confronti del mondo occidentale nel suo complesso, per una sovrastante presenza sta­tunitense: ipotesi che hanno avuto concreto riscontro nel caso del Marocco. A questo pro­posito, bisogna mettere in rilievo una distin­zione fondamentale tra l'atteggiamento ma­rocchino e quello tunisino e algerino: pure non essendo, come dicevamo, messa in que­stione, la catalizzazione europea ha per il Marocco un fortissimo contrappeso nella ca­talizzazione atlantica, che si traduce da un lato, per quanto riguarda l'Europa, nella im­portanza prioritaria della relazione tradizio­nale e spesso ambivalente con quel paese tra due versanti che è la Spagna (relazione alle cui alterne vicende si può attribuire anche la sfida lanciata dal Marocco con la recente richiesta di adesione alla Cee), e d'altra parte nella presenza dominante degli Stati Uniti, cui soltanto il Marocco, nonostante i rappor­ti molto stretti e in qualche periodo priori-tari tra Tunisi e Washington, ha concesso delle basi militari nella regione maghrebina.
Una maggiore intesa politica intermaghre-bina potrebbe forse controbilanciare, in cer­ta misura, questi fattori di estroversione ma­rocchina rispetto all'Europa. Anche a questo fine, si può invece ritenere sostanzialmente negativo un approfondimento del solo accor do Libia-Marocco, che potrebbe facilmente condurre, permanendo le tensioni con gli al­tri paesi, a una sorta di enclave politica pro­iettata dal Maghreb verso il Machreq, con gli effetti laceranti che, nell'ambito maghre-bino, già si potevano intravvedere nelle rea­zioni algerine all'accordo di Oujda.
Gli incontri al vertice degli anni 70 han­no avuto come tema dominante, insieme ai rapporti con la Cee, i problemi della sicu­rezza del Mediterraneo. In certa misura, pel i paesi maghrebini catalizzazione europea e catalizzazione mediterranea si sono dimostra­te, di fatto, convergenti: innanzi tutto per il ruolo ipoteticamente assegnato e più volte richiesto all'Europa comunitaria, quale pos­sibile argine al trasferimento della conflit­tualità Est-Ovest nell'ambito mediterraneo. A questo proposito, le iniziative algerine e tunisine, lungo gli anni 70, sono state nu­merose, dalle dichiarazioni ufficialmente e-manate da quegli incontri al vertice sulla necessità di allontanare dal Mediterraneo le flotte straniere, all'azione svolta in seno ai non allineati perché il Mediterraneo venisse dichiarato « mare di pace », alle proposte di una conferenza tra rivieraschi non impegnati in blocchi militari, e infine all'intensa azio­ne diplomatica svolta fin da principio in seno alla Csce per una estensione al Mediterra­neo degli accordi sulla sicurezza europea. La diversa polarizzazione marocchina trova con­ferma nel relativo disinteresse dimostrato per i problemi mediterranei in occasione di que­ste varie iniziative. Quanto alla Libia, è chia­ro che il suo interesse mediterraneo, per il quale Tripoli ha cercato di fare leva non solo su Malta, ma, meno manifestamente, anche su Atene, ha finora dato luogo soltanto ad una strategia dirompente, tendente ad acquisire qualche punto di forza da usare in funzione di cuneo.
Nella nostra analisi delle diverse strategie maghrebine, abbiamo dedicato maggiore at­tenzione ai fattori endogeni che all'inseri­mento di quelle politiche nelle tensioni bipo­lari presenti nel Mediterraneo e nell'area ara­bo-africana. Questo fattore è indubbiamente rilevante, ma non sembra tuttavia costituire una componente strutturale di quelle strate­gie. Nel caso della Tunisia e dell'Algeria, ri­teniamo che esista una incontestabile volontà di tenere il più possibile estranea a tale tensione l'area regionale. A parte l'azione assi­duamente svolta, anche se con accentuazioni diverse, in seno ai non allineati per indurii a una sostanziale equidistanza, ci limitiamo a ricordare da un lato l'entità degli accordi e-conomici e degli scambi commerciali tra Al­geri e Washington, e d'altra parte la cura sempre manifestata da Tunisi nell'assicurare con Mosca i rapporti più distesi. Nel caso di Tripoli, le variazioni strategiche della po­litica praticata possono occasionalmente coin­cidere con gli interessi di una grande poten­za (come è stato per l'Urss nel caso della rinnovata « fusione » con la Siria) : ma tale coincidenza rimane sostanzialmente congiun­turale.
Certamente meno congiunturale, perché fondato innanzi tutto sulla massiccia pene­trazione economica iniziata negli anni '60, e tuttora alimentato da una politica di aiuti economici e militari che hanno creato una dipendenza organica, è il rapporto del Ma­rocco con gli Stati Uniti: rapporto che allo stato attuale delle cose, può indubbiamente costituire, nell'ambito del Maghreb, un fat­tore di turbamento. Non si deve tuttavia sot­tovalutare né l'entità degli accordi economici stipulati da Rabat con l'Urss (che del resto si è sempre guardata dal prendere posizioni troppo drastiche sul problema del Sahara occidentale) né il legame prioritario della politica estera alouita con progetti e inte­ressi di carattere prettamente nazionale. D'al­tra parte, dopo la visita di Chadli in Ame­rica le relazioni Algeria-Usa sono entrate in una fase di netta benevolenza. Una so­luzione della questione sahariana attenue­rebbe senza dubbio il massimo incentivo che gioca attualmente a favore degli Stati Uniti, e cioè la necessità di forniture milita­ri, di aiuti che compensino l'estenuante sfor­zo bellico e, più indirettamente, dell'influen­za politica che Washington può esercitare. Una maggiore intesa maghrebina — di cui la composizione del contenzioso sahariano è una fondamentale precondizione e che dovreb­be avere il suo « cuore duro » in una con­certazione tra Algeria e Tunisia — potrebbe dunque attenuare le più pericolose inciden­ze regionali del bipolarismo Est-Ovest, con un effetto politicamente stabilizzante in tut­ti i quadranti dello scacchiere euro-mediter­raneo-arabo-africano.

Ricordo di Liliana Magrini

Ricordando Liliana
di Marcella Glisenti


Marcella Glisenti durante un incontro in una scuola di Roma

II 2 luglio è morta a 68 anni, nell'ospe­dale di Mestre, Liliana Magrini. Gli amici dell'lpalmo la ricordano alla guida dell'Uf­ficio studi dove ha lavorato con intelligen­za e passione dalla fondazione dell'Istituto sino a un mese prima di cedere per sempre alla malattia che l'aveva colpita. In noi tutti la sua scomparsa lascia un vuoto par­ticolare: cosi accade per le persone com­plesse e riservate come era la Magrini, sempre amabile ma pur sempre nascosta nelle pieghe profonde di una personalità raffinata e misteriosa, ricca di esperienze e contaminazioni culturali difficili da distri­care, non riducibile a una schematica sem­plificazione. Sapevamo che prima di de­dicarsi ai problemi dei paesi in via di svi­luppo e in particolare ai temi del dialogo Nord-Sud, di cui era ormai diventata una esperta, Liliana Magrini aveva svolto un’attività letteraria, di critica e di narratrice, collocandosi tra i primi intellettuali italiani. Ma pochi di noi avevano potuto leggere i suoi libri e i suoi scritti, di cui evitava di parlare con una discrezione eccessiva, in­spiegabile.
Era nata a Venezia, e dopo il liceo clas­sico si era iscritta alla facoltà di Filosofia dell'Università di Padova. Tali studi avevano accentuato in lei l'interesse naturale alla riflessione e alla ricerca della verità. La sua passione per la verità era solidamente con­nessa all'esigenza del dubbio come prova decisiva della verità stessa. Era questo at­teggiamento il tratto più rilevante della sua personalità intellettuale e morale: fu una illuminista sans merci, e preferì rinun­ciare a molte gioie della vita piuttosto che attenuarne l'autenticità con le mistificazioni consolatorie di una qualsiasi fede. Di con­seguenza, non una moralista, ma persona dotata di coscienza intransigente, soprattut­to nei propri confronti. Gentile per istinto e per educazione, sempre interessata a ca­pire, aveva più curiosità per i problemi che per le persone. E fu il suo limite umano, la causa della solitudine in cui visse la se­conda parte della sua vita.
Il suo primo romanzo — La vestale — scritto in italiano e da lei stessa tradotto in francese per Gallimard, edito nel 1953, è, in controluce, non una storia autobiogra­fica, ma piuttosto un tentativo di denunciare i propri limiti: « Non sono capace di mesco­larmi alla vita, ne resto un'asettica custode che assiste al rito del vivere senza pene­trarlo, senza sapersene fare una vita per sé ». È un romanzo, La vestale, che la cri­tica francese definì opera di uno dei talenti più rari del tempo. Tre anni dopo seguì un secondo libro edito anche questo da Gallimard, Le carnet venitien, che sotto for­ma di diario si colloca in modo singolare nell'abbondante letteratura ispirata a Vene­zia, perché qui lo schizzo del paesaggio, la notazione estetica, sono sempre accom­pagnati da una compenetrazione che tra­muta la città in persona.
Nonostante l'invito degli editori, non scrisse più di narrativa. La sua creatività di Iì in avanti si esplicherà in reportages, critiche letterarie, articoli di ricerca filo­logica, servizi culturali per il Terzo program­ma della Rai e per la Televisione francese. Lentamente slitterà dal campo puramente letterario a quello esplorativo della civiltà nera che Liliana Magrini scopri in conse­guenza della sua passione per la lingua e la letteratura francese, e il mondo fran­cese in generale. Dai 29 ai 40 anni aveva vissuto quasi stabilmente a Parigi, che dopo Venezia fu la sua vera patria. Amica di Camus e di Malraux e di molti altri intel­lettuali che l'accolsero come una di loro, deve infatti a Parigi la sua formazione e il suo successo.
Tornata in Italia, benché apprezzata da molti, non riscosse lo stesso entusiasmo: più che gli scritti furono presi in conside­razione i suoi modi eccessivamente schivi, la sua inadattabilità alle regole del club culturale, come è d'uso in Italia, la sua ap­parente freddezza che si sgelava soltanto in folgoranti quanto laceranti passioni senza scampo. Per la Radiotelevisione francese cominciò a seguire i primi convegni inter­nazionali sull'emergente problema negro. A Roma nel 1959 per il primo Congresso de­gli scrittori negri; nel 1964 a Perugia; nel 1966 a Dakar per il primo Festival delle arti negre; nel 1967 a San Marino per un festival della cultura senegalese. Nel frat­tempo si era consolidato il suo lavoro col Terzo programma Rai, cosf che decise di stabilirsi a Roma.
Nel 1964, in occasione del convegno in­ternazionale « L'Africa nel mondo di doma­ni », che avevo organizzato in quanto pre­sidente della Associazione amici italiani di « Présence africaine », in collaborazione con l'Università di Perugia, l'incontrai per la prima volta tra i molti giornalisti italiani e stranieri che erano giunti per seguire i lavori di quella « prima assoluta » per la cultura italiana. Dapprima mi apparve di­stratta, con molte idee preconcette, ma I’insieme del suo atteggiamento mi rivelò subito dopo una intelligenza e un garbo intellettuale più che rari. Le sue osserva­zioni erano acute e arricchite da un sotto­fondo non provinciale, mai ritagliate sui discorsi italiani del tempo. La sua cultura, da grande dilettante, non era qualcosa che la concernesse come un bagaglio, ma era il modo stesso di sentire i problemi del momento, di accorgersene con sottigliezza, di prevederne gli sbocchi futuri. Comunque non era quasi mai l'aspetto politico del te­ma che potesse coinvolgerla, ma il suo nucleo storico e culturale.
Da allora ci vedemmo spesso, anche fuo­ri dei convegni e delle iniziative terzomon­diste in cui ero molto compromessa; lenta­mente diventammo amiche, facemmo insie­me molti viaggi di lavoro, ad Algeri, in Tunisia, a Istanbul, in Giappone, per citare solo i più importanti. Liliana accentuava sempre più la solitudine in cui aveva co­minciato a vivere dal suo rientro in Italia, ricordando ad ogni occasione la stagione d'oro trascorsa a Parigi così ricca di raffi­nate amicizie, di attività operosa, ma anche d'ingenue illusioni su se stessa, sulla pro­pria capacità di essere e allo stesso tempo di non tradire la propria autenticità, la ve­rità fatta uguale al sacro, l'unico sacro che riconoscesse tale.
La scelta fatta non le rese facile la vita, soprattutto a Roma, capitale dell'allusione, del detto appena accennato e poi subito negato, del compromesso come chiave della sopravvivenza nella società. Vi ci si adattò con buona grazia, ne fece la sua condizione esistenziale e la difese da ogni inquina­mento: perché infine esserne capace equi­valeva a una dignità assoluta, quanto se­greta. Il suo bisogno di autenticità la por­tava a discriminare con crescente rigore non solo le persone, i fatti, i problemi, ma persine i pensieri, escludendo da sé tutto ciò che non fosse essenziale.
Dopo il nostro viaggio in Giappone riprese le letture di filosofia Zen, lesse tutto quanto fosse reperibile sulla poesia e la letteratura giapponese, e nell'estate dell'anno scorso si dedicò a comporre meravigliosi haikou che vorrei pubblicare perché sono la sua ultima produzione letteraria, gli ultimi fuochi della sua qualità di intel­lettuale. Per lei il mondo non era né si­gnificante, né assurdo. Esso era, e basta.
Di fronte a tale assoluta nudità di miti non le restava che la guida di una coscienza illuminata, e l'attenzione ai minimi fenomeni del creato, i soli sopportabili dalla pochezza dell'essere umano messo di fronte al mistero della morte. Fu il suo discorso ultimo, il tema di cui si fece portatrice, con una compromissione interiore che corrispondeva al rispetto degli altri e alla responsabilità verso se stessa, ben lontana dunque dall'atteggiamento della «Vestale» che sapeva risolvere soltanto sul piano estetico la sua ragione d'essere.
La sua fu una maturazione nascosta, sotterranea e dura: e il suo tirocinio somiglia molto alla sua morte, silenziosa e paziente, disperata e senza un grido. Di se stessa aveva un'idea di cosciente devastazione che la filosofia Zen aveva aiutato a dissimilare sotto la maschera di una calma sorridente e di apparente distacco.
L'approdo all'Ipalmo aveva a suo tempo segnato il divorzio definitivo dal mondo letterario, perché nella tematica dell’Ipalmo aveva trovato un altro mondo, qualcosa a cui credere, cui darsi con tutto il proprio impegno mentale. Quando la malattia cominciò a incalzarla da vicino pensò alla morte in termini di stoicismo orientale. Gli ultimi tempi ripeteva: «Non moriamo: è la morte che sopraggiunge ». E si mise ad attenderla alla maniera Zen nascondendo la paura dietro una impeccabile compostezza.
Malgrado la grande amicizia che ci ha unite, mi rendo dolorosamente conti di quanto poco l'avevo conosciuta, di quanto poco le ho chiesto di lei, incapace di violare la sua riservatezza. E ora mi rendo di quanto è scarno il mio racconto, ed esile il ritratto che ho tentato di fare, per consegnare agli amici un'immagine più leggibile di quanto Liliana Magrini di sé permettesse. Del resto non è difficile concordare con Eraclito quando afferma: « L'anima dell’uomo è un paese lontano che non si può avvicinare, né esplorare ».