lunedì 18 febbraio 2008

Guido Rey. Caffè: un grande Maestro

Federico Caffè: profilo di un maestro

Estratto dal discorso del Prof. Guido Rey

Per l'intitolazione della Facoltà a Federico Caffè in occasione dell'inaugurazione dell'anno accademico 1993-94 (18 gennaio 1994)


Alle migliaia di studenti che hanno avuto la fortuna di avere F. Caffè come educatore e docente di politica economica egli ha fornito una «concezione della scienza economica come un'opera costante e successiva per cui l'edificio della scienza stessa risulta come una serie di piani che si aggiungono a quelli precedenti in modo da costruire un tutto solido ed armonico».A questi giovani F. Caffè ha dedicato tutta intera la sua vita e a loro volta i giovani lo amavano per la lucidità espositiva, la veemenza nella condanna delle ingiustizie, la profonda dottrina, la vasta cultura e la prosa preziosa e al tempo stesso essenziale. Ai giovani delle ultime generazioni ha saputo trasmettere il suo sdegno all'«idea che un'intera generazione di giovani debba considerare di essere nata in anni sbagliati e debba subire come fatto ineluttabile il suo stato di precarietà occupazionale»Continuo era il suo richiamo all'idea che «l'Università statale non può rinunciare, senza screditarsi, a realizzare quella "eguaglianza delle posizioni di partenza" che è precetto tipico di ogni rispettabile concezione "liberale"».È stato un Maestro severo, esigente, un esempio difficile da imitare, attento a non forzare le inclinazioni dei singoli, sempre pronto ad immedesimarsi ed incuriosirsi per le nuove linee di ricerca proposte dai giovani studiosi ai quali ha insegnato il profondo rispetto per tutte le scuole di pensiero economico. Ricordava ai suoi allievi che: «il compito dell'intellettuale è quello di rimanere fedele al dubbio sistematico come appropriato antidoto alla riaffermazione intransigente di cui spesso si finisce di essere prigionieri» e soprattutto ammoniva che è innaturale ed illusoria la scissione mentale dell'economista in quanto teorico ed in quanto cittadino.Per molti economisti italiani è stato un partecipe fratello maggiore e per molti altri è stato un esempio ed un punto di riferimento per la sua produzione scientifica e per la sua universalmente riconosciuta equanimità e severità di giudizio. Anche lui come Schumpeter ironizzava sulla «originalità soggettiva e cioè il conseguimento autonomo di risultati già da altri raggiunti e la cui tempestiva conoscenza avrebbe potuto evitare una costosa moltiplicazione di sforzi».Non sono mancati gli oppositori alle sue idee e alla sua scuola ma questo, se a volte gli ha procurato cocenti delusioni, non gli ha impedito di essere obiettivo nei suoi giudizi.Il suo pensiero lo si può sintetizzare nell'esigenza di rinnovamento e di continuità poiché il progresso della scienza economica deve necessariamente inglobare quello che di valido vi è nel pensiero degli economisti di qualsiasi indirizzo: in quanto tale il progresso è pluralistico e non monocorde.Al decisore di politica economica F. Caffè raccomandava l'attenzione alla gente comune che produce e risparmia, ai giovani senza lavoro, alla solidarietà verso i più deboli e condannava l'indifferenza verso i trabocchetti, le insidie ed i tripli giochi di personaggi in posizione di autorità che inviavano al Paese chiari ed insinuanti inviti ad arricchirsi.L'obiettivo primario deve essere «il pieno impiego che non è soltanto un mezzo per accrescere la produzione e intensificare l'espansione. È un fine in sé, "poiché porta al superamento dell'atteggiamento servile di chi stenta a trovare un lavoro o nutre il timore di perderlo".Riformista che così definiva: «Egli preferisce, il poco al tutto, il realizzabile all'utopico, il gradualismo delle trasformazioni a una sempre rinviata trasformazione radicale del sistema». «Il riformista è anche consapevole che alla derisione di chi lo considera un impenitente tappabuchi (...) si aggiunge lo scherno di chi pensa che ci sia poco da riformare, né ora né mai in quanto a tutto provvede l'operare spontaneo del mercato».Il suo testamento spirituale lo si legge in uno dei suoi ultimi scritti in cui afferma: «La prospettiva di vita intellettuale valida che mi rimane è troppo limitata perché sia disposto a considerare vacui ideali, a mio avviso irrinunciabili, l'egualitarismo, l'assistenzialismo, lo Stato del benessere».Il suo riformismo è stato sempre rigoroso e ha condannato con dure parole «lo sfruttamento politico degli emarginati; la pressione dei furbi rispetto ai veri bisognosi nell'avvalersi delle varie prestazioni assistenziali, le ripercussioni dannose a carico del bilancio dello Stato dell'inclinazione lassista a voler dare tutto a tutti».La sua profonda conoscenza dei fallimenti del mercato non gli nascondeva il pericolo dei fallimenti dello Stato che considerava ancora più gravi poiché colpiscono le fasce deboli ed emarginate del Paese e ammoniva che la miseria genera odio.Era un profondo conoscitore degli scritti degli studiosi liberali italiani a cominciare da F. Ferrara per finire con G. Del Vecchio e L. Einaudi ai quali F. Caffè era legato dalla comune convinzione che «è soltanto rifacendosi all'uomo come valore in sé che si potrà confidare di apportare qualche elemento di chiarificazione in materie in cui si può dimostrare frastornante non la schematizzazione teorica ma l'esibizione di certezze nelle discussioni di politica economica». Fra queste fragili certezze egli inseriva l'inefficienza dello Stato, la forza creativa del mercato, il parassitismo arrogante della burocrazia.F. Caffè è stato e rimane un Maestro per la convinta e anticipatrice capacità di cogliere gli elementi di novità che si ritrovavano nel pensiero di Keynes del quale amava ricordare che «presto o tardi sono le idee e non gli interessi costituiti che sono pericolose sia in bene che in male». Ugualmente fondamentale è stato il suo impegno ad approfondire gli aspetti analitici e normativi che erano impliciti nell'economia del benessere e a segnalare le sfide che l'economista deve trarre dall'economia del benessere con gli impliciti giudizi di valore da contrapporre alla pilatesca visione dell'economista che si rifugia nel formalismo per non vedersi coinvolto nelle scelte di politica economica. Introdusse in Italia i lavori di J. Tinbergen e R. Frisch come ponte fra l'eleganza formale dell'economia del benessere e l'impegnativa funzione della politica economica come guida alle decisioni.Esemplari sono state le sue ricerche sulle conseguenze occupazionali del progresso tecnico, sul trade-off tra occupazione ed inflazione, sull'esigenza di evitare le ambiguità politiche e teoriche della politica dei redditi.Alcune pagine lungimiranti lo vedono critico delle partecipazioni statali, si può dire dalla loro nascita. Egli affermava che da organismi ambigui non possono che discendere criteri operativi distorti e non era lecito decidere sulla frontiera fra pubblico e privato e sull'alienazione di un patrimonio pubblico costruito con gli sforzi e i sacrifici della collettività, secondo le regole definite per gli amministratori di un patrimonio lasciato loro dai nonni.Un suo intervento particolarmente efficace ed innovativo riguardò la strategia dell'allarmismo economico come riedizione del crollismo ossia l'uso spregiudicato dell'informazione economica da parte dei grandi oligopoli per colpire i lavoratori e le componenti più deboli della società. La sua analisi consentiva di evidenziare un ulteriore fallimento del mercato e al tempo stesso riaffermava il ruolo fondamentale dello studioso libero a tutela dei più deboli economicamente e culturalmente.Scrisse sulla convertibilità della lira, analizzò i movimenti di capitali e denunciò il semplicistico richiamo alla libertà dei mercati senza che venisse ugualmente considerato l'interesse del Paese a vedersi tutelato nei confronti degli incappucciati (come egli amava definirli) ossia gli anonimi speculatori finanziari che privilegiano il lucro di breve periodo e intralciano l'accumulazione produttiva. Del resto i mercati monetari e finanziari nonché le Borse sono sempre stati criticati da Caffè per la loro scarsa trasparenza e per la illusoria capacità di allocare efficientemente il risparmio.Nel dibattito sulle misure di riequilibrio della bilancia dei pagamenti egli ha ricordato incessantemente l'esigenza di non procedere unicamente dal lato delle esportazioni poiché sovente può essere più efficiente per il benessere sociale puntare sulla sostituzione delle importazioni. La sua convinta accettazione dell'idea dell'Europa unita non gli impedì di analizzare e criticare l'aprioristica accettazione del Sistema Monetario Europeo in assenza di politiche di struttura che rafforzassero l'apparato produttivo dei paesi più deboli.E sempre in tema di economia internazionale egli evidenziava la colpevole ignoranza di coloro, specie gli organismi internazionali, che raccomandavano "il lasciar fare" ai paesi poveri e dimenticavano di dimostrare analiticamente come potesse operare la mano invisibile in un'economia mondiale dominata dagli squilibri e dalla concentrazione del benessere in pochi paesi industrializzati.La rassegna dei contributi scientifici di F. Caffè non sarebbe completa se venisse dimenticata la raccolta critica delle opere di F. Ferrara, F.S. Nitti e L. Einaudi, la preziosa azione a favore della diffusione degli autori stranieri meno noti ma precursori dei nuovi filoni di ricerca, la direzione di importanti collane di opere di studiosi italiani e stranieri e infine la sua partecipazione al dibattito economico e politico con appassionati lucidi e eruditi articoli sui principali giornali e riviste italiani.Per concludere vorrei riprendere una frase del discorso di commemorazione di F. Ferrara, il Maestro al quale si ispirò F. Caffè nella sua ultima lezione. Sono parole che ritengo consentano di ricordare degnamente anche F. Caffè: «tutta una generazione si abbeverò alle fonti limpide della sua dottrina e la sua produzione scientifica, così ricca e varia e forte, dovrà essere studiata da chiunque voglia tutti conoscere i segreti dell'economia politica».Credo sia giusto ricordare anche il suo ammonimento: «occorre fare appello ad un vigile senso critico e ad una lunga memoria che, nell'efficace collegamento tra il presente ed il passato, trovi il migliore antidoto al sottile veleno delle presunte certezze».


NOTA BIOGRAFICA

Federico Caffè, nato a Pescara il 6.1.1914, si è laureato con lode in Scienze Economiche e Commerciali presso l'Università di Roma nel 1936. Assistente volontario alla cattedra di Politica economica e finanziaria dal 1939, nell'anno accademico 1946/47 ha vinto una borsa di studio per un soggiorno presso la London School of Economics. Libero docente di politica economica e finanziaria nel 1949 nello stesso anno è stato nominato assistente incaricato alla cattedra di Scienza delle Finanze di cui era titolare G. Del Vecchio. Vincitore nel 1954 del primo concorso a cattedra di Politica economica e finanziaria tenutosi dopo la fine della guerra, è stato professore straordinario della stessa disciplina a Messina passando poi all'insegnamento di Economia politica a Bologna ed infine è stato chiamato a Roma nel 1959 come professore ordinario di Politica economica e finanziaria presso la facoltà di Economia e Commercio. Nel 1984 gli è stato conferito il diploma di prima classe, con medaglia d'oro, per i benemeriti della scuola, della cultura e dell'arte.Dal 1970 è stato socio corrispondente dell'Accademia nazionale dei Lincei ed è divenuto socio nazionale nel 1986. Alla sua lunga e intensa carriera universitaria si è affiancata un'altrettanto lunga e prestigiosa carriera pubblica che lo vide per un breve periodo capo di gabinetto del Ministro della Ricostruzione Meuccio Ruini nel Governo Parri. Non meno rilevanti sono stati gli incarichi che gli vennero affidati come funzionario del Servizio Studi della Banca d'Italia dove venne assunto nel 1937. Nel 1954, con la sua nomina a professore straordinario, si concluse il rapporto di lavoro e venne nominato consulente del Governatore della Banca d'Italia, incarico che mantenne sino al 1969. Inoltre dalla data della sua istituzione nel 1965 e sino al 1975 ha diretto l'Ente Einaudi per gli studi monetari bancari e finanziari. Ha curato con grande erudizione e gusto filologico la raccolta di opere di F. Ferrara, di F. S. Nitti e di L. Einaudi nonché significative raccolte di saggi di autori italiani e stranieri. La sua dedizione all'Università e gli incarichi ricevuti non lo hanno mai allontanato da un impegno civile che lo ha visto antifascista negli anni della guerra, a contatto con le forze democratico-liberali e azioniste nel dopoguerra, vicino al riformismo cattolico di Cronache Sociali di Dossetti all'inizio degli anni '50 e infine vigile e critico consigliere del sindacato unitario. Era piccolo di statura, riservato, mite ma capace di terribili sfuriate, lettore instancabile, amante della musica, erudito, storico del pensiero economico italiano. Federico Caffè è scomparso nella notte fra il 14 ed il 15 aprile 1987. Autore di oltre 200 pubblicazioni, fra le quali si segnalano le seguenti: - Vecchi e nuovi indirizzi nelle indagini sull'economia del benessere, Tecnica Grafica, Roma, 1953; - Saggi critici di economia, De Luca, Roma, 1958;- Politica economica - Sistematica e tecniche di analisi (2 voll.) Boringhieri, Torino, 1966; - Teorie e problemi della politica sociale, Laterza, Bari, 1970; - Un'economia in ritardo, Boringhieri, Torino, 1976; - Lezioni di Politica Economica, Boringhieri, Torino, 1980;- L'economia contemporanea, Edizioni Studium, Roma, 1981;- In difesa del Welfare State, Rosenberg & Sellier, Torino, 1986.

Federico Caffè

UN RICHIAMO AL REALISMO

di Federico Caffè

Questo che segue è l'articolo pubblicato dalla rivista "Cooperazione" del Ministero degli Affari Esteri, sul numero 19, aprile 1981. L'intervento del Prof. Federico Caffè è all'interno del "Primo Piano" "Verso il Nuovo Ordine monetario internazionale", curato da Roberto Maurizio. L'articolo è inserito all'interno del "Dibattito Aperto" su "Moneta e Sviluppo". Oltre al Professore, parteciparono, tra gli altri, Mahbub Ul Haq, Paolo Leon, e Fabrizio Saccomanni.

Federico Caffè è Professore ordinario di Politica Economica e Finanziaria nella Facoltà di Economia e Commercio dell'Università di Roma.

Pareto ha scritto, in qualche parte, che esistono biblioteche intere di volumi dedicati alla moneta catti­va, ma che basterebbe qualche pa­gina per discutere in modo esau­riente sulla moneta buona. Indi­pendentemente dal valore che vo­glia attribuirsi a questa o ad analo­ghe frasi celebri (e non ritengo, per mio conto, che la frase riportata possa essere condivisa), ci trovia­mo in presenza di uno studioso che, con la potenza eccezionale del suo ingegno, è riuscito più di una volta a condensare in una pa­rola o in una formula i semi che hanno alimentato interi rami della letteratura economica. Ma, scen­dendo da simili altezze stratosferi-che di vigore intellettuale al livello ìnfimo in cui mi trovo, condensare in poco tempo il tema che mi è sta­to assegnato appare, a prima vi­sta, ben poco significativo. Poi, ri­flettendo che questa limitatezza di significatività rimarrebbe immuta­ta anche se disponessi di uno spa­zio ben più ampio e considerando soprattutto che negli anni ottanta già ci siamo, credo di poter indica­re, in modesta semplicità, il mio punto di vista sulle prospettive del sistema monetario internazionale. Credo che esso trovi i suoi incon­sapevoli nemici, da un lato, nei profeti del futuro, che inventano con monotona insistenza innume­revoli varianti di nuove monete o di panieri di monete; dall'altro, nei nostalgici del passato che, avendo utilizzato con profitto in una speci­fica circostanza la formula della «messa in comune delle riserve va­lutarie», la ripropongono in ogni occasione, con patetico convinci­mento.
Tra l'utopia e l'attaccamento al passato, si colloca ciò che è stori­camente possibile, nell'arco di tempo considerato. Viviamo in an­ni di profonda involuzione cultura­le, in cui atteggiamenti che veni­vano rimproverati a membri del mondo accademico di paesi del socialismo reale rivivono in incre­dibili affermazioni, come quelle dell'economista americano David A. Stockman, il quale ha rimprove­rato ai maggiori modelli econome­trici del suo paese di produrre pre­visioni «ciniche e distruttive». In questo clima da crociata, che è la negazione stessa della dialettica scientifica, penso che gli anni ot­tanta debbano essere dedicati al­la riflessione e all'autocritica, lasciando sedimentare le idee pri­ma di imbarcarsi in nuovi ambizio­si quanto fragili progetti. Su que­sta via dell'autocritica si è lodevolmente posta la Banca Mondia­le, con il completo abbandono del tradizionale concetto di incremen­to di reddito pro-capite su cui ba­sava i suoi prestiti, una volta ac­certato che esso si traduceva nell'accrescere il vantaggio della parte già privilegiata dei paesi sottosviluppati. Tetragono ad ogni spirito autocritico appare, in­vece, il Fondo Monetario Interna­zionale, che persiste nella illusio­ne di poter condizionare le altrui economie senza una effettiva co­noscenza dell'intreccio dei proble­mi economici e sociali che le contraddistingue. Senza una profon­da autocritica di questo atteggia­mento, che offende la scienza più di quanto mortifichi la consapevo­lezza critica dei cittadini dei paesi coinvolti, non vedo un utile futuro per l'attività del Fondo, nel quadro di un sistema monetario interna­zionale che unisca la capacità tecnica con il rispetto della civiltà e della indipendenza politica di ogni membro.
Per quanto il quadro degli anni im­mediatamente innanzi a noi sia fo­sco, non mancano segni di speran­za. Un imponente numero di eco­nomisti inglesi ha assunto una fer­ma posizione critica nei confronti del monetarismo. Un autorevole banchiere centrale, Karl Otto Pöhl, presidente della Deutsche Bunde­sbank, ha avuto occasione di affermare, di recente: «La nostra po­litica non mira a un dato insieme di tassi di interesse, considerati come economicamente desidera­bili, né si propone di difendere un particolare tasso di cambio. Persi­no la nostra politica di offerta del­la moneta costituisce uno stru­mento, un obiettivo intermedio, in quanto è legata all'impiego pieno del potenziale produttivo». Questo mi sembra il seme fecondo su cui si potrà cercare di ricostruire la trama di promettenti e stabili inte­se future. Purtroppo, questa lucida affermazione è offuscata dalla preoccupazione che lo stesso per­sonaggio manifesta per l'eccessi­va espansione della spesa pubbli­ca (nella Germania Occidentale!). Allorché questi residui della sag­gezza convenzionale si saranno dissolti e, nel pieno utilizzo del po­tenziale produttivo, si sarà trovato il fine al cui servizio porre lo stru­mento monetario, sul piano inter­nazionale come su quello interno, si sarà compiuto un passo decisi­vo per ricomporre un valido siste­ma monetario tra i vari paesi. Ma questo richiede che gli anni ottan­ta siano dominati dall'autocritica, più che da una vacua progettua­lità.