Tentativi di integrazione ed elementi di divaricazione
di Liliana Magrini
di Liliana Magrini
II progetto per la creazione del « grande Maghreb », che fu oggetto di discussione ai vari livelli fra Algeria, Tunisia, Marocco, Libia e Mauritania soprattutto nel corso degli anni '60, non è riuscito a decollare. La differenza dei modelli economici e i fattori di antagonismo politico continuano a rendere ardua quella concertazione di strategie di sviluppo necessaria per giungere all'integrazione fra i cinque paesi o almeno fra alcuni di loro. Il fluttuante atteggiamento della Libia e il ruolo « centrale » dell'Algeria. La crisi del Sahara. I rapporti con la Cee i problemi della sicurezza nel Mediterraneo. Sul ruolo dell'Europa verso i paesi maghrebini una nota di Edgard Pisani.
Abbiamo assistito di recente, tra i paesi maghrebini, a una fitta serie d'incontri in cui è stata tentata non solo una fallita mediazione tra Algeri e Rabat, ma anche un ennesimo rilancio del progetto d'integrazione del « grande Maghreb » nella sua accezione più estesa, e cioè comprendente, oltre a quel nucleo centrale che è costituito da Algeria, Tunisia e Marocco, anche Libia e Mauritania. I motivi di contrasto sono tuttora troppo rilevanti perché si possa ipotizzare a breve termine la realizzazione di questo obiettivo. Tuttavia l'insistenza con cui esso viene riproposto dopo ogni periodo di più acute tensioni, e d'altra parte l'importanza che la sua attuazione potrebbe assumere per gli equilibri mediterranei e africani, inducono ad una indagine sulla reale entità dei fattori di attrazione e di repulsione inerenti a questo tenace mito orientatore.
Alla base di una appartenenza al Maghreb sancita dalle rispettive Costituzioni, anche il gruppo dei tre non ha alcuna tradizione di unificazione statuale, avvenuta soltanto per breve tempo (poco più di mezzo secolo) sotto l'impero degli Almohacli: oltre allo spazio geofisico, ha in comune soprattutto la cultura inerente a una medesima etnia originaria (il mondo berbero) e alle medesime sovrapposizioni esterne, dai fondaci e le città fenice alla conquista romana, alla profonda penetrazione e acculturazione araba, alla amministrazione ottomana (salvo in Marocco) e infine alla medesima occupazione coloniale: insomma, una histoire-objet, per riprendere una espressione di Laroui, in gran parte definita da connotazioni e collegamenti esterni. Una fusione statuale appare oggi totalmente utopistica: non però quella concertazione politica ed economica, di cui viene periodicamente avvertila l'esigenza.
Il tentativo d'integrazione del Maghreb ha assunto una forma istituzionale, per quanto ancora embrionale, soltanto lungo gli anni '60. Non sarà inutile ripercorrere l'iter di questi tentativi, e i termini in cui è stato affrontato il problema, per individuare su quali elementi coagulanti venisse posto l'accento, e quali siano stati i più gravi fattori di blocco, a parte i motivi contingenti di tensione e di conflitto: tra questi ultimi, il contenzioso riguardante la frontiera algero-marocchina, sfociato nel 1963 in un conflitto armato e solo formalmente composto nel 1969 — senza porre termine alle rivendicazioni marocchine — dal trattato di Ifrane; e, molto meno virulenti, quelli riguardanti le frontiere algero-tunisina e algero-libica.
Se l'entità « Maghreb » è stata spesso presente nella terminologia dei movimenti anticolonialisti dei tre paesi, il problema dell'integrazione viene posto per la prima volta, nel 1958, alla Conferenza di Rabat, indetta, per consentire una omologa partecipazione algerina, non dai governi ma dai partiti: PIstiqlal, il Néo-Destour e il Fin. In questa sede, veniva addirittura auspicata una soluzione federativa, che avrebbe dovuto essere preparata da una comune e mai istituita « Assemblea consultativa del Maghreb arabo » emanata dai due partiti governativi e dal Fln.
Nel 1964, la Conferenza dei ministri mag-hrebini dell'Economia, riunita a Tangeri, dava al progetto una prima base istituzionale impegnandosi a periodiche riunioni, e creando un organo permanente, il Consiglio consultivo del Maghreb, affiancato da vari comitati tecnici e incaricato di "promuovere il coordinamento dei piani di sviluppo... preparare le condizioni di una armonizzazione industriale... e precisare le basi di un quadro multilaterale per scambi commerciali privilegiati ». Al protocollo di accordo, firmato a Tripoli nel 1965, aderiva anche la Libia. Nel 1967, il Comitato presentava alla Conferenza ministeriale un primo progetto, che, esplicitamente scartando il modello Cee, optava per una integrazione progressiva, fondata sulla interazione tra una graduale liberalizzazione degli scambi e l'armonizzazione dei processi di industrializzazione, e sulla creazione di una Banca mag-hrebina d'integrazione per il finanziamento di progetti comuni. Incaricato di approfondire questa formula, il Comitato presentava nel 1970 un progetto definitivo alla Conferenza di Tangeri, dove l'approvazione veniva evasivamente rinviata ad ulteriori approfondimenti. Nel frattempo, in seguito al colpo di stato del 1969, era avvenuto il ritiro della Libia che, attirata ormai dalla costituzione di un « fronte tripartito » con la Rau (Egitto) e il Sudan, criticava aspramente, sul piano politico, il progetto magh-rebino. Lentamente, l'attività del Comitato si arenava. Sul piano multilaterale, i risultati si limitarono ad alcuni accordi nel settore dei trasporti; e a questo livello, il tentativo d'integrazione sembrò definitivamente tramontato.
Questa vicenda potrebbe indicare semplicemente la non praticabilità della integrazione perseguita, se contemporaneamente non si fosse costituita quella che possiamo definire, con Bruno Etienne, come una fittissima rete di « accordi bilaterali a più », generalmente formulati in nome della perseguita unione maghrebina, e a proposito dei quali uno degli organismi comuni creati negli anni '60 poteva addirittura parlare di « ipertrofia »: quasi che appena si apriva uno spiraglio nel quadro delle ricorrenti tensioni, venisse subito a emergere una spontanea tendenza al collegamento e alla interpretazione. Dal 1963 al 1970, si contavano così tra i paesi maghrebini quattro accordi di fraternità, buon vicinato e cooperazione (oltre a quelli già esistenti in precedenza tra Tunisia e Libia e Tunisia e Marocco), e sul piano delle convenzioni riguardanti specifici settori, 27 accordi Algeria-Marocco, 40 Algeria-Tunisia, 12 rispettivamente Algeria-Libia e Libia-Marocco, e vari rilevanti accordi Tunisia-Libia. Parallelamente, con movimento spontaneo, si mol-tiplicavano le associazioni intermaghrebine di carattere professionale. Il fenomeno continuava negli anni '70, ma le ricorrenti tensioni Libia-Marocco, giunte ad una totale rottura in relazione ai tentati colpi di stato in Marocco del 1971 e 1972, le fluttuazioni dei rapporti libici con la Tunisia (dalla fusione annunciata a Gerba nel 1974 e immediatamente contraddetta, alle tensioni per la piattaforma continentale e al non smentito intervento libico di Gafsa) e infine, dal 1975, la nuova crisi dei rapporti algero-marocchini in relazione al Sahara occidentale, venivano a circoscriverne l'ambito, lasciando piena e crescente esplicazione al bilateralismo soltanto tra Algeria e Tunisia.
Per quanto riguarda la Libia, si deve sottolineare che k sua ricorrente aspirazione alle « fusioni » — dal tentativo di Gerba alla « unione arabo-africana » sancita nel 1984 dalla convenzione di Oujda con il Marocco — si è rivelata, ai fini della integrazione maghrebina, non meno pericolosa delle sue impennate aggressive, in quanto è stata ogni voltai — e non senza motivo — avvertita dall'Algeria come un tentativo di contrastare la sua influenza regionale, perenne oggetto di malcelata rivalità tra i due paesi, riducendo Algeri a un sostanziale isolamento. È chiara d'altra parte l'importanza strutturale che assume, per qualsiasi progetto maghrebino, la soluzione del problema del Sahara, problema-chiave che investe direttamente la Maurita-nia, passata dall'alleanza marocchina a quella algerina, e che può esercitare una influenza determinante sui futuri equilibri di tutta la regione.
Comunque, dal 1970, l'unica iniziativa di rilievo realizzata all'insegna del « grande Maghreb » è stata segnata, nel 1983, dal nuovo « accordo di fraternità e concordia » tra Algeria e Tunisia dichiaratamente aperto a tutti i paesi della regione, e che otteneva rapidamente l'adesione della Mauritania.
Alla base di una appartenenza al Maghreb sancita dalle rispettive Costituzioni, anche il gruppo dei tre non ha alcuna tradizione di unificazione statuale, avvenuta soltanto per breve tempo (poco più di mezzo secolo) sotto l'impero degli Almohacli: oltre allo spazio geofisico, ha in comune soprattutto la cultura inerente a una medesima etnia originaria (il mondo berbero) e alle medesime sovrapposizioni esterne, dai fondaci e le città fenice alla conquista romana, alla profonda penetrazione e acculturazione araba, alla amministrazione ottomana (salvo in Marocco) e infine alla medesima occupazione coloniale: insomma, una histoire-objet, per riprendere una espressione di Laroui, in gran parte definita da connotazioni e collegamenti esterni. Una fusione statuale appare oggi totalmente utopistica: non però quella concertazione politica ed economica, di cui viene periodicamente avvertila l'esigenza.
Il tentativo d'integrazione del Maghreb ha assunto una forma istituzionale, per quanto ancora embrionale, soltanto lungo gli anni '60. Non sarà inutile ripercorrere l'iter di questi tentativi, e i termini in cui è stato affrontato il problema, per individuare su quali elementi coagulanti venisse posto l'accento, e quali siano stati i più gravi fattori di blocco, a parte i motivi contingenti di tensione e di conflitto: tra questi ultimi, il contenzioso riguardante la frontiera algero-marocchina, sfociato nel 1963 in un conflitto armato e solo formalmente composto nel 1969 — senza porre termine alle rivendicazioni marocchine — dal trattato di Ifrane; e, molto meno virulenti, quelli riguardanti le frontiere algero-tunisina e algero-libica.
Se l'entità « Maghreb » è stata spesso presente nella terminologia dei movimenti anticolonialisti dei tre paesi, il problema dell'integrazione viene posto per la prima volta, nel 1958, alla Conferenza di Rabat, indetta, per consentire una omologa partecipazione algerina, non dai governi ma dai partiti: PIstiqlal, il Néo-Destour e il Fin. In questa sede, veniva addirittura auspicata una soluzione federativa, che avrebbe dovuto essere preparata da una comune e mai istituita « Assemblea consultativa del Maghreb arabo » emanata dai due partiti governativi e dal Fln.
Nel 1964, la Conferenza dei ministri mag-hrebini dell'Economia, riunita a Tangeri, dava al progetto una prima base istituzionale impegnandosi a periodiche riunioni, e creando un organo permanente, il Consiglio consultivo del Maghreb, affiancato da vari comitati tecnici e incaricato di "promuovere il coordinamento dei piani di sviluppo... preparare le condizioni di una armonizzazione industriale... e precisare le basi di un quadro multilaterale per scambi commerciali privilegiati ». Al protocollo di accordo, firmato a Tripoli nel 1965, aderiva anche la Libia. Nel 1967, il Comitato presentava alla Conferenza ministeriale un primo progetto, che, esplicitamente scartando il modello Cee, optava per una integrazione progressiva, fondata sulla interazione tra una graduale liberalizzazione degli scambi e l'armonizzazione dei processi di industrializzazione, e sulla creazione di una Banca mag-hrebina d'integrazione per il finanziamento di progetti comuni. Incaricato di approfondire questa formula, il Comitato presentava nel 1970 un progetto definitivo alla Conferenza di Tangeri, dove l'approvazione veniva evasivamente rinviata ad ulteriori approfondimenti. Nel frattempo, in seguito al colpo di stato del 1969, era avvenuto il ritiro della Libia che, attirata ormai dalla costituzione di un « fronte tripartito » con la Rau (Egitto) e il Sudan, criticava aspramente, sul piano politico, il progetto magh-rebino. Lentamente, l'attività del Comitato si arenava. Sul piano multilaterale, i risultati si limitarono ad alcuni accordi nel settore dei trasporti; e a questo livello, il tentativo d'integrazione sembrò definitivamente tramontato.
Questa vicenda potrebbe indicare semplicemente la non praticabilità della integrazione perseguita, se contemporaneamente non si fosse costituita quella che possiamo definire, con Bruno Etienne, come una fittissima rete di « accordi bilaterali a più », generalmente formulati in nome della perseguita unione maghrebina, e a proposito dei quali uno degli organismi comuni creati negli anni '60 poteva addirittura parlare di « ipertrofia »: quasi che appena si apriva uno spiraglio nel quadro delle ricorrenti tensioni, venisse subito a emergere una spontanea tendenza al collegamento e alla interpretazione. Dal 1963 al 1970, si contavano così tra i paesi maghrebini quattro accordi di fraternità, buon vicinato e cooperazione (oltre a quelli già esistenti in precedenza tra Tunisia e Libia e Tunisia e Marocco), e sul piano delle convenzioni riguardanti specifici settori, 27 accordi Algeria-Marocco, 40 Algeria-Tunisia, 12 rispettivamente Algeria-Libia e Libia-Marocco, e vari rilevanti accordi Tunisia-Libia. Parallelamente, con movimento spontaneo, si mol-tiplicavano le associazioni intermaghrebine di carattere professionale. Il fenomeno continuava negli anni '70, ma le ricorrenti tensioni Libia-Marocco, giunte ad una totale rottura in relazione ai tentati colpi di stato in Marocco del 1971 e 1972, le fluttuazioni dei rapporti libici con la Tunisia (dalla fusione annunciata a Gerba nel 1974 e immediatamente contraddetta, alle tensioni per la piattaforma continentale e al non smentito intervento libico di Gafsa) e infine, dal 1975, la nuova crisi dei rapporti algero-marocchini in relazione al Sahara occidentale, venivano a circoscriverne l'ambito, lasciando piena e crescente esplicazione al bilateralismo soltanto tra Algeria e Tunisia.
Per quanto riguarda la Libia, si deve sottolineare che k sua ricorrente aspirazione alle « fusioni » — dal tentativo di Gerba alla « unione arabo-africana » sancita nel 1984 dalla convenzione di Oujda con il Marocco — si è rivelata, ai fini della integrazione maghrebina, non meno pericolosa delle sue impennate aggressive, in quanto è stata ogni voltai — e non senza motivo — avvertita dall'Algeria come un tentativo di contrastare la sua influenza regionale, perenne oggetto di malcelata rivalità tra i due paesi, riducendo Algeri a un sostanziale isolamento. È chiara d'altra parte l'importanza strutturale che assume, per qualsiasi progetto maghrebino, la soluzione del problema del Sahara, problema-chiave che investe direttamente la Maurita-nia, passata dall'alleanza marocchina a quella algerina, e che può esercitare una influenza determinante sui futuri equilibri di tutta la regione.
Comunque, dal 1970, l'unica iniziativa di rilievo realizzata all'insegna del « grande Maghreb » è stata segnata, nel 1983, dal nuovo « accordo di fraternità e concordia » tra Algeria e Tunisia dichiaratamente aperto a tutti i paesi della regione, e che otteneva rapidamente l'adesione della Mauritania.
I fattori economici
Se la interpenetrazione fra i « tre » sembra spontaneamente suggerita dalla omogeneità dell'ambiente geofisico e dall’indistinzione delle frontiere (comune quest'ultima ai « cinque » del « grande Maghreb »), a tale omogeneità è innanzi tutto connessa una analogia di produzioni che certamente non facilita l'accordo. Rifiutando il modello Cee, il Comitato permanente consultivo aveva mostrato di comprendere chiaramente che i fattori di complementarità indispensabili ad ogni liberalizzazione commerciale non potevano in alcun modo considerarsi nel Maghreb come un dato, ma dovevano interamente costruirsi per decisione politica attraverso una concertazione delle strategie di sviluppo e in particolare di industrializzazione, che portasse sia ad una specializzazione concordata, sia alla definizione di progetti comuni.
È chiaro che ciò poteva risultare più facile negli anni '60, quando la ristrutturazione delle economie, appena emerse dal colonialismo, era in fase iniziale, mentre risulta oggi notevolmente ardua non solo per la ripetitività e dunque la concorrenzialità di molte strutture produttive nel frattempo create, ma anche per il timore, da parte dei paesi meno avanzati, che il diverso stadio di industrializzazione possa facilmente tramutare la perseguita armonizzazione in una gerarchizzazione concordata o inevitabilmente imposta per quanto riguarda la divisione del lavoro. Del resto, già nel 1972 il testo citato delle Ecoles d'administration osservava come tra e possibili soluzioni, si dovesse scartare una « regionalizzazione » dei settori, che avrebbe inevitabilmente assegnato l'industria di base all'Algeria e i servizi alla Tunisia — indubbiamente la più ricca di quadri — confinando il Marocco all'agricoltura o al massimo all'agro-industria. A questo riguardo, la situazione non è mutata. D'altra parte, si può aggiungere che una sensibile riserva algerina nasce dall'opposto timore che l’« armonizzazione » perseguita possa implicare una riduzione dei suoi piani di sviluppo e una nuova distribuzione di certe attività, che l'Algeria ha finora considerato come specificamente proprie.
Inoltre, un complesso problema nasce sul piano delle strutture economiche e dei modi di produzione. Già nel 1970, tra i problemi accantonati dalla Conferenza di Tangeri, era l'obiezione sollevata dall'Algeria quanto alla difficoltà di realizzare la perseguita integrazione tra una economia sempre più risolutamente statalizzata e due sistemi che lasciavano libero gioco alla iniziativa privata. È difficile prevedere quale sarà la misura di quella parziale privatizzazione dell'economia che è stata finora prospettata in Algeria a livello teorico, ma la cui definizione concreta è ancora oggetto di discussioni, che hanno contribuito al lungo ritardo subito dalla pubblicazione del piano di sviluppo 1985-87. Certamente, tale misura sarà ben lontana dal liberismo tunisino e marocchino: tuttavia, anche circoscritto, il processo potrebbe contribuire a una capillare interpenetrazione a livello di piccola e media impresa, soprattutto in certi settori dell'industria leggera.
Sul piano economico, i caratteri più evidenti dei tre paesi sono indubbiamente il carattere concorrenziale di molte produzioni, e, d'altra parte, le medesime carenze. A questi fattori si deve in gran parte ascrivere la modestia dei progressi registrati dall'interscambio.
Rinunciamo a presentare un quadro della situazione perché le statistiche dell'ultimo decennio risultano in proposito non solo lacunose ma estremamente contraddittorie: si vedano ad esempio quelle fornite dagli an-nuari del Gatt, dove i dati sono totalmente diversi — evidentemente per la discordanza delle fonti nazionali — a seconda del paese di riferimento. L'elemento che ne risulta più chiaramente è comunque l'estrema instabilità delle correnti di scambio, sia come conseguenza delle tensioni politiche, sia per motivi strutturali: le fluttuazioni sono infatti tali da presentare, da un anno all'altro, sensibili impennate e altrettanto brusche cadute, e da rendere perciò impossibile l'individuazione di qualsiasi linea di tendenza. In generale, le punte più alte dell'ultimo quinquennio (tra i 50 e i 100 milioni di dollari) si presentano nelle importazioni algerine e libiche dalla Tunisia, tunisine dalla Mauritania e marocchine dalla Libia: le due ultime prevalentemente relative al ferro e al petrolio, mentre sulle prime incidono fortemente manufatti di consumo.
Questi caratteri di concorrenzialità e di comune carenza sono innanzi tutto evidenti nel settore alimentare, dove d'altra parte Libia e Mauritania presentano mercati troppo ristretti per offrire sufficiente sbocco alle produzioni eccedentarie dei tre, e condizioni climatiche totalmente inadatte a contribuire al superamento del deficit alimentare. I soli elementi di complementarità maghrebina nel settore agricolo rimangono finora affidati all'assorbimento libico, soprattutto di olio d'oliva tunisino, e alla crescente produzione marocchina di zucchero di barbabietola, di cotone e di ortofrutticoli. Ancora insufficienti a coprire un mercato maghrebino integrato, i tessili, i prodotti d'abbigliamento e i pellami (già oggetto di esportazioni regionali marocchine e tunisine), e i prodotti di consumo corrente (bibite, conserve, prodotti casalinghi), hanno finora seguito moduli fortemente ripetitivi; ma potrebbero essere oggetto di una specializzazione integrata, che ne potenzierebbe l'interscambio. È chiaro che per i tessili, ciò sarebbe possibile soltanto sottraendo il settore a quella integrazione « verticale » di cui esso è divenuto progressivamente oggetto tanto in Tunisia come in Marocco.
Già l'industria leggera, che l'Algeria tende nuovamente a potenziare, potrebbe dunque essere oggetto di un'azione capillare mirante alla complementarità delle produzioni. Ma una più profonda integrazione dovrebbe essere affidata a quei due pilastri dell'economia maghrebina che sono i prodotti minerari ed energetici, risorsa fondamentale sulla quale si è fondato nei tre paesi gran parte dello sforzo d'industrializzazione, ma i cui processi di trasformazione in loco sono ancora a uno stadio scarsamente avanzato.
Dai documenti maghrebini di studio alle analisi degli esperti è stato spesso sottolineato come la frequente esistenza di giacimenti minerari (petrolio, fosfati, ferro, piombo, zinco, argilla) in prossimità dell'una o dell'altra frontiera abbia indubbiamente contribuito, in certi casi, a esasperare il contenzioso inerente alla definizione dei confini, ma d'altra parte possa costituire una base preziosa per iniziative comuni. E infatti, se nessuna pianificazione è intervenuta in proposito sul piano multilaterale, tale possibilità emerge concretamente da vari accordi bilaterali. In questa direzione vanno appunto due tra i più importanti progetti concordati nel quadro della convenzione algero-tunisina del 19 marzo 1983, e relativi a due impianti comuni situati sul confine, in corrispondenza ai giacimenti della rispettiva materia prima (un impianto a Kalaat per la lavorazione del lithos, e un cementificio a Feriana): progetti che verranno a costituire, insieme a una fabbrica comune di motori diesel a Sakiet Sidi Youssef, un rilevante complesso di produzioni congiunte. Ricordiamo inoltre come parallelamente al gasdotto Algeria-Italia attraverso la Tunisia — che viene così a beneficiare di forniture agevolate e di royalties — sia sempre sul terreno, sebbene accantonato a causa sia delle tensioni Algeri-Rabat, sia delle divergenze sorte tra Algeri e Madrid quanto alle fornitore di gas, il progetto di un analogo gasdotto tra l'Algeria e la Spagna attraverso il Marocco. D'altronde, per quanto riguarda le risorse naturali, molti spunti metodologici estremamente positivi emergono già dalla rete fittissima di accordi stipulati, come ricordavamo, lungo gli anni '60 e talora successivamente insabbiati.
Il settore delle materie prime è stato dunque spontaneamente oggetto di varie forme di cooperazione chiaramente individuabili tra le maglie della rete disordinata e quasi casuale di accordi bilaterali via via stipulati: forme che vanno dalla produzione al trasporto al commercio alla trasformazione, che possono inserire i paesi meno favoriti in una complessa rete di attività collegate al prodotto, d'altra parte facilitando, attraverso una convergenza delle forze intorno ad una razionale pianificazione, il raggiungimento di stadi più avanzati di lavorazione.
Tra i paesi maghrebini, soltanto l'Algeria consuma al suo interno il 45% della propria produzione energetica e mineraria, mentre i prodotti degli altri paesi sono in massima parte esportati. Ora, esistono in questo settore, per i paesi maghrebini, anche alcuni elementi di possibile complementarità (il petrolio, presente solo in misura insignificante in Marocco, a sua volta invece esportatore regionale di carbone e di argilla; la produzione di fosfati, altissima per il Marocco, primo esportatore mondiale, abbastanza rilevante in Tunisia, modesta in Algeria e assente in Libia; il ferro, fondamentale risorsa della Mauritania e base strutturale della strategia industriale dell'Algeria, che può i-noltre esportare parte del minerale; il piombo, esportato da Marocco e Tunisia, e per il Marocco, lo zolfo e il cobalto), come esistono, per alcuni di questi prodotti e per altri, sovrapposizioni non insignificanti.
In campo commerciale, un esperimento di estremo interesse veniva realizzato negli anni '60 con la creazione del Comptoir Magh-rébin de l'Alpha, costituito nell'ambito degli accordi di Tangeri, e concretamente funzionante fino al rallentamento e infine al blocco negli anni 70. Compito del Comptoir fu la definizione di un prix-plancber, che i paesi aderenti s'impegnavano ad onervare, e di contingenti d'esportazione, superando i quali il ricavato eccedentario doveva essere distribuito tra tutti i paesi membri. Sarebbe certamente utopistico pensare ad una formula a-naloga per le materie prime minerarie: molto meno irrealistico, tuttavia, prevedere una complessa interazione di accordi di fornitura, processi comuni di trasformazione, agevolazioni per il trasporto e, ove coincidano gli interessi, una strategia concordata per la commercializzazione con l'estero.
Per ragioni di spazio non ci soffermiamo su altri settori come la cooperazione tecnica (con particolare riguardo al settore dell'istruzione) che ha avuto e potrebbe ritrovare notevole sviluppo negli accordi intermaghre-bini; e i trasporti marittimi, che costituiscono indubbiamente, insieme al libero uso reciproco delle attrezzature portuali, uno dei settori privilegiati per la cooperazione regionale.
Concludendo, si può affermare che sul piano economico, l'integrazione maghrebina non è spontaneamente indotta dalle cose, ma appare certamente possibile qualora divenga una reale opzione politica. Dalla Conferenza di Tangeri e dal trattato del 1974, dove figurano tra le clausole fondamentali, due esigenze hanno sempre esplicitamente dominato gli accordi intermaghrebini: la definizione di una posizione comune nei confronti della Cee, e la concertazione delle politiche commerciali nei confronti dei paesi terzi. Si tratta di esigenze che nascono da una proiezione verso l'esterno insita nella struttura geopolitica come nell'economia e infine nella cultura del Maghreb, « finis terrae » del mondo arabo — per citare un'altra definizione di Laroui — e come tale, delicata zona di sutura tra l'Europa, verso la quale l'inclina la sua dimensione mediterranea, e l'Africa subsahariana. La complessa e variabile intersezione di queste dimensioni è elemento determinante per una eventuale integrazione maghrebina, alla quale i fattori politici appaiono al tempo stesso come il massimo ostacolo e un permanente incentivo.
È chiaro che ciò poteva risultare più facile negli anni '60, quando la ristrutturazione delle economie, appena emerse dal colonialismo, era in fase iniziale, mentre risulta oggi notevolmente ardua non solo per la ripetitività e dunque la concorrenzialità di molte strutture produttive nel frattempo create, ma anche per il timore, da parte dei paesi meno avanzati, che il diverso stadio di industrializzazione possa facilmente tramutare la perseguita armonizzazione in una gerarchizzazione concordata o inevitabilmente imposta per quanto riguarda la divisione del lavoro. Del resto, già nel 1972 il testo citato delle Ecoles d'administration osservava come tra e possibili soluzioni, si dovesse scartare una « regionalizzazione » dei settori, che avrebbe inevitabilmente assegnato l'industria di base all'Algeria e i servizi alla Tunisia — indubbiamente la più ricca di quadri — confinando il Marocco all'agricoltura o al massimo all'agro-industria. A questo riguardo, la situazione non è mutata. D'altra parte, si può aggiungere che una sensibile riserva algerina nasce dall'opposto timore che l’« armonizzazione » perseguita possa implicare una riduzione dei suoi piani di sviluppo e una nuova distribuzione di certe attività, che l'Algeria ha finora considerato come specificamente proprie.
Inoltre, un complesso problema nasce sul piano delle strutture economiche e dei modi di produzione. Già nel 1970, tra i problemi accantonati dalla Conferenza di Tangeri, era l'obiezione sollevata dall'Algeria quanto alla difficoltà di realizzare la perseguita integrazione tra una economia sempre più risolutamente statalizzata e due sistemi che lasciavano libero gioco alla iniziativa privata. È difficile prevedere quale sarà la misura di quella parziale privatizzazione dell'economia che è stata finora prospettata in Algeria a livello teorico, ma la cui definizione concreta è ancora oggetto di discussioni, che hanno contribuito al lungo ritardo subito dalla pubblicazione del piano di sviluppo 1985-87. Certamente, tale misura sarà ben lontana dal liberismo tunisino e marocchino: tuttavia, anche circoscritto, il processo potrebbe contribuire a una capillare interpenetrazione a livello di piccola e media impresa, soprattutto in certi settori dell'industria leggera.
Sul piano economico, i caratteri più evidenti dei tre paesi sono indubbiamente il carattere concorrenziale di molte produzioni, e, d'altra parte, le medesime carenze. A questi fattori si deve in gran parte ascrivere la modestia dei progressi registrati dall'interscambio.
Rinunciamo a presentare un quadro della situazione perché le statistiche dell'ultimo decennio risultano in proposito non solo lacunose ma estremamente contraddittorie: si vedano ad esempio quelle fornite dagli an-nuari del Gatt, dove i dati sono totalmente diversi — evidentemente per la discordanza delle fonti nazionali — a seconda del paese di riferimento. L'elemento che ne risulta più chiaramente è comunque l'estrema instabilità delle correnti di scambio, sia come conseguenza delle tensioni politiche, sia per motivi strutturali: le fluttuazioni sono infatti tali da presentare, da un anno all'altro, sensibili impennate e altrettanto brusche cadute, e da rendere perciò impossibile l'individuazione di qualsiasi linea di tendenza. In generale, le punte più alte dell'ultimo quinquennio (tra i 50 e i 100 milioni di dollari) si presentano nelle importazioni algerine e libiche dalla Tunisia, tunisine dalla Mauritania e marocchine dalla Libia: le due ultime prevalentemente relative al ferro e al petrolio, mentre sulle prime incidono fortemente manufatti di consumo.
Questi caratteri di concorrenzialità e di comune carenza sono innanzi tutto evidenti nel settore alimentare, dove d'altra parte Libia e Mauritania presentano mercati troppo ristretti per offrire sufficiente sbocco alle produzioni eccedentarie dei tre, e condizioni climatiche totalmente inadatte a contribuire al superamento del deficit alimentare. I soli elementi di complementarità maghrebina nel settore agricolo rimangono finora affidati all'assorbimento libico, soprattutto di olio d'oliva tunisino, e alla crescente produzione marocchina di zucchero di barbabietola, di cotone e di ortofrutticoli. Ancora insufficienti a coprire un mercato maghrebino integrato, i tessili, i prodotti d'abbigliamento e i pellami (già oggetto di esportazioni regionali marocchine e tunisine), e i prodotti di consumo corrente (bibite, conserve, prodotti casalinghi), hanno finora seguito moduli fortemente ripetitivi; ma potrebbero essere oggetto di una specializzazione integrata, che ne potenzierebbe l'interscambio. È chiaro che per i tessili, ciò sarebbe possibile soltanto sottraendo il settore a quella integrazione « verticale » di cui esso è divenuto progressivamente oggetto tanto in Tunisia come in Marocco.
Già l'industria leggera, che l'Algeria tende nuovamente a potenziare, potrebbe dunque essere oggetto di un'azione capillare mirante alla complementarità delle produzioni. Ma una più profonda integrazione dovrebbe essere affidata a quei due pilastri dell'economia maghrebina che sono i prodotti minerari ed energetici, risorsa fondamentale sulla quale si è fondato nei tre paesi gran parte dello sforzo d'industrializzazione, ma i cui processi di trasformazione in loco sono ancora a uno stadio scarsamente avanzato.
Dai documenti maghrebini di studio alle analisi degli esperti è stato spesso sottolineato come la frequente esistenza di giacimenti minerari (petrolio, fosfati, ferro, piombo, zinco, argilla) in prossimità dell'una o dell'altra frontiera abbia indubbiamente contribuito, in certi casi, a esasperare il contenzioso inerente alla definizione dei confini, ma d'altra parte possa costituire una base preziosa per iniziative comuni. E infatti, se nessuna pianificazione è intervenuta in proposito sul piano multilaterale, tale possibilità emerge concretamente da vari accordi bilaterali. In questa direzione vanno appunto due tra i più importanti progetti concordati nel quadro della convenzione algero-tunisina del 19 marzo 1983, e relativi a due impianti comuni situati sul confine, in corrispondenza ai giacimenti della rispettiva materia prima (un impianto a Kalaat per la lavorazione del lithos, e un cementificio a Feriana): progetti che verranno a costituire, insieme a una fabbrica comune di motori diesel a Sakiet Sidi Youssef, un rilevante complesso di produzioni congiunte. Ricordiamo inoltre come parallelamente al gasdotto Algeria-Italia attraverso la Tunisia — che viene così a beneficiare di forniture agevolate e di royalties — sia sempre sul terreno, sebbene accantonato a causa sia delle tensioni Algeri-Rabat, sia delle divergenze sorte tra Algeri e Madrid quanto alle fornitore di gas, il progetto di un analogo gasdotto tra l'Algeria e la Spagna attraverso il Marocco. D'altronde, per quanto riguarda le risorse naturali, molti spunti metodologici estremamente positivi emergono già dalla rete fittissima di accordi stipulati, come ricordavamo, lungo gli anni '60 e talora successivamente insabbiati.
Il settore delle materie prime è stato dunque spontaneamente oggetto di varie forme di cooperazione chiaramente individuabili tra le maglie della rete disordinata e quasi casuale di accordi bilaterali via via stipulati: forme che vanno dalla produzione al trasporto al commercio alla trasformazione, che possono inserire i paesi meno favoriti in una complessa rete di attività collegate al prodotto, d'altra parte facilitando, attraverso una convergenza delle forze intorno ad una razionale pianificazione, il raggiungimento di stadi più avanzati di lavorazione.
Tra i paesi maghrebini, soltanto l'Algeria consuma al suo interno il 45% della propria produzione energetica e mineraria, mentre i prodotti degli altri paesi sono in massima parte esportati. Ora, esistono in questo settore, per i paesi maghrebini, anche alcuni elementi di possibile complementarità (il petrolio, presente solo in misura insignificante in Marocco, a sua volta invece esportatore regionale di carbone e di argilla; la produzione di fosfati, altissima per il Marocco, primo esportatore mondiale, abbastanza rilevante in Tunisia, modesta in Algeria e assente in Libia; il ferro, fondamentale risorsa della Mauritania e base strutturale della strategia industriale dell'Algeria, che può i-noltre esportare parte del minerale; il piombo, esportato da Marocco e Tunisia, e per il Marocco, lo zolfo e il cobalto), come esistono, per alcuni di questi prodotti e per altri, sovrapposizioni non insignificanti.
In campo commerciale, un esperimento di estremo interesse veniva realizzato negli anni '60 con la creazione del Comptoir Magh-rébin de l'Alpha, costituito nell'ambito degli accordi di Tangeri, e concretamente funzionante fino al rallentamento e infine al blocco negli anni 70. Compito del Comptoir fu la definizione di un prix-plancber, che i paesi aderenti s'impegnavano ad onervare, e di contingenti d'esportazione, superando i quali il ricavato eccedentario doveva essere distribuito tra tutti i paesi membri. Sarebbe certamente utopistico pensare ad una formula a-naloga per le materie prime minerarie: molto meno irrealistico, tuttavia, prevedere una complessa interazione di accordi di fornitura, processi comuni di trasformazione, agevolazioni per il trasporto e, ove coincidano gli interessi, una strategia concordata per la commercializzazione con l'estero.
Per ragioni di spazio non ci soffermiamo su altri settori come la cooperazione tecnica (con particolare riguardo al settore dell'istruzione) che ha avuto e potrebbe ritrovare notevole sviluppo negli accordi intermaghre-bini; e i trasporti marittimi, che costituiscono indubbiamente, insieme al libero uso reciproco delle attrezzature portuali, uno dei settori privilegiati per la cooperazione regionale.
Concludendo, si può affermare che sul piano economico, l'integrazione maghrebina non è spontaneamente indotta dalle cose, ma appare certamente possibile qualora divenga una reale opzione politica. Dalla Conferenza di Tangeri e dal trattato del 1974, dove figurano tra le clausole fondamentali, due esigenze hanno sempre esplicitamente dominato gli accordi intermaghrebini: la definizione di una posizione comune nei confronti della Cee, e la concertazione delle politiche commerciali nei confronti dei paesi terzi. Si tratta di esigenze che nascono da una proiezione verso l'esterno insita nella struttura geopolitica come nell'economia e infine nella cultura del Maghreb, « finis terrae » del mondo arabo — per citare un'altra definizione di Laroui — e come tale, delicata zona di sutura tra l'Europa, verso la quale l'inclina la sua dimensione mediterranea, e l'Africa subsahariana. La complessa e variabile intersezione di queste dimensioni è elemento determinante per una eventuale integrazione maghrebina, alla quale i fattori politici appaiono al tempo stesso come il massimo ostacolo e un permanente incentivo.
I fattori politici
II Maghreb può considerarsi come il punto d'intersezione di varie catalizzazioni: araba (ed arabo-islamica), africana, europea e mediterranea. Su ognuna di queste diverse direttrici, sono apparsi di volta in volta fattori di convergenza e di antagonismo, scelte ed alleanze contraddittorie, contrapposte tendenze all'espansione o alla leadership, che hanno fortemente inciso sulle relazioni in-termaghrebine, e su cui queste hanno a loro volta esercitato una influenza determinante.
Di queste diverse variabili, la più stabile è senza dubbio, ai fini del rapporto inter-maghrebino, la componente islamica, quale riconosciuta appartenenza che unisce tutti i paesi in una comune radice culturale. Questa però viene sentita e gestita dalle rispettive élites in modo profondamente diverso. Un modo problematico e tormentato per l'Algeria, dove la necessità di conciliare fedeltà all'Islam ed esigenze di modernizzazione, cultura autoctona e immissioni esterne, è oggetto di una dialettica vissuta con profondo impegno, e tradotta in un dibattito costante e talora aspro, che incide profondamente sul costume: si può dire, del resto, che questa problematicità abbia trovato una espressione quasi emblematica in quel personaggio composito è talora sconcertante che è stato Boumediene, con la sua commistione di misticismo gelido e di lucido pragmatismo.
Un modo pacato e controllato per la Tunisia, dove l'islamismo è stato tranquillamente assunto dal gruppo dirigente come un dato culturale di fondo dal quale si doveva muovere anche quando si trattava d'infletterlo o contraddirlo (è noto l'uso fatto da Bourguiba dei testi del Corano per avallare le più ardite laicizzazioni, quali la profonda trasformazione dello status della donna). In certo senso, si potrebbe equiparare la « islamicità » delle élites tunisine, esente da rigidi conformismi come da reali contestazioni, alla « cattolicità » di certi notabili italiani: e forse è proprio questo tipo di rapporto che ha reso la Tunisia particolarmente adatta a presiedere, in un ruolo pacatamente mediatore, quell'organo di azione politica che è la Conferenza islamica.
Infine, altrettanto specifico è il rapporto mantenuto dal regime marocchino con l'Islam: da un lato quasi appannaggio della dinastia alaouita, di cui garantisce la legittimità e che sola ne tutela a proprio arbitrio l'ortodossia — e d'altra parte, profondamente radicato in quel ceto di notabili che ha dato a suo tempo origine all'Istiqlal, e che ha impresso su tutta la politica marocchina una impronta non facilmente obliteratale.
Tale posizione, d'altra parte, non è omo-logabile a quella di Gheddafi, che potrebbe dirsi profeta di una nuova comunità più che paladino dell'ortodossia islamica, e come tale, dunque, privo di una autorità « referente », e sostanzialmente isolato. Il Marocco è pertanto, dei tre paesi maghrebini, l'unico per il quale l'Islam costituisce una diretta componente della sfera del potere, e dunque l'unico che ne abbia fatto anche una connotazione della sua politica estera, innanzi tutto svolgendo, con l'Arabia Saudita, un ruolo determinante nella fondazione della Conferenza islamica, e con questa appartenenza caratterizzando il suo rapporto privilegiato con i paesi del Golfo. L'affermazione di laicità della politica lanciata, quasi a sfida, da Boumediene alla Conferenza di Lahore nel 1974, esprimeva insieme il dissenso dalla rete di alleanze e dalla strategia insita in quella operazione, ma anche un profondo divario culturale: elementi ambedue presenti nelle tensioni politiche algero-marocchine. L'antagonismo inerente a quelle alleanze ha d'altronde trovato diretta espressione in relazione al Sahara occidentale, dove il massimo consenso islamico — dal Medio Oriente al Golfo e all'Africa subsahariana — va alle tesi marocchine.
Quanto detto finora si riferisce soltanto a quello che è stato l'atteggiamento prevalente dei tre paesi sul piano ufficiale e nella cultura delle élites: quanto a quell'ondata di fondo ancora confusa e sostanzialmente composita che è costituita dai nuovi movimenti islamici di base, è chiaro come essi abbiano una fondamentale componente comune nelle frustrazioni seguite ad una indipendenza attesa come una palingenesi, e nella contestazione che ne deriva nei confronti dell'attuale autorità politica e religiosa. Allo stesso modo, sono chiari i filoni fondamentali e ta-lora contrapposti in cui si inseriscono quei movimenti: meno facile individuare i caratteri specifici eventualmente connessi, in o-gni paese, al diverso atteggiamento dei tre regimi, e gli scenari che ne potrebbero eventualmente derivare.
La principale motivazione con cui la Libia, nel 1970, si staccava dall'intesa maghrebina, fu l'affermazione che un accordo particolare tra un gruppo di paesi arabi veniva a contraddire il grande ideale del panarabismo, e ad allontanarne la realizzazione.
Di queste diverse variabili, la più stabile è senza dubbio, ai fini del rapporto inter-maghrebino, la componente islamica, quale riconosciuta appartenenza che unisce tutti i paesi in una comune radice culturale. Questa però viene sentita e gestita dalle rispettive élites in modo profondamente diverso. Un modo problematico e tormentato per l'Algeria, dove la necessità di conciliare fedeltà all'Islam ed esigenze di modernizzazione, cultura autoctona e immissioni esterne, è oggetto di una dialettica vissuta con profondo impegno, e tradotta in un dibattito costante e talora aspro, che incide profondamente sul costume: si può dire, del resto, che questa problematicità abbia trovato una espressione quasi emblematica in quel personaggio composito è talora sconcertante che è stato Boumediene, con la sua commistione di misticismo gelido e di lucido pragmatismo.
Un modo pacato e controllato per la Tunisia, dove l'islamismo è stato tranquillamente assunto dal gruppo dirigente come un dato culturale di fondo dal quale si doveva muovere anche quando si trattava d'infletterlo o contraddirlo (è noto l'uso fatto da Bourguiba dei testi del Corano per avallare le più ardite laicizzazioni, quali la profonda trasformazione dello status della donna). In certo senso, si potrebbe equiparare la « islamicità » delle élites tunisine, esente da rigidi conformismi come da reali contestazioni, alla « cattolicità » di certi notabili italiani: e forse è proprio questo tipo di rapporto che ha reso la Tunisia particolarmente adatta a presiedere, in un ruolo pacatamente mediatore, quell'organo di azione politica che è la Conferenza islamica.
Infine, altrettanto specifico è il rapporto mantenuto dal regime marocchino con l'Islam: da un lato quasi appannaggio della dinastia alaouita, di cui garantisce la legittimità e che sola ne tutela a proprio arbitrio l'ortodossia — e d'altra parte, profondamente radicato in quel ceto di notabili che ha dato a suo tempo origine all'Istiqlal, e che ha impresso su tutta la politica marocchina una impronta non facilmente obliteratale.
Tale posizione, d'altra parte, non è omo-logabile a quella di Gheddafi, che potrebbe dirsi profeta di una nuova comunità più che paladino dell'ortodossia islamica, e come tale, dunque, privo di una autorità « referente », e sostanzialmente isolato. Il Marocco è pertanto, dei tre paesi maghrebini, l'unico per il quale l'Islam costituisce una diretta componente della sfera del potere, e dunque l'unico che ne abbia fatto anche una connotazione della sua politica estera, innanzi tutto svolgendo, con l'Arabia Saudita, un ruolo determinante nella fondazione della Conferenza islamica, e con questa appartenenza caratterizzando il suo rapporto privilegiato con i paesi del Golfo. L'affermazione di laicità della politica lanciata, quasi a sfida, da Boumediene alla Conferenza di Lahore nel 1974, esprimeva insieme il dissenso dalla rete di alleanze e dalla strategia insita in quella operazione, ma anche un profondo divario culturale: elementi ambedue presenti nelle tensioni politiche algero-marocchine. L'antagonismo inerente a quelle alleanze ha d'altronde trovato diretta espressione in relazione al Sahara occidentale, dove il massimo consenso islamico — dal Medio Oriente al Golfo e all'Africa subsahariana — va alle tesi marocchine.
Quanto detto finora si riferisce soltanto a quello che è stato l'atteggiamento prevalente dei tre paesi sul piano ufficiale e nella cultura delle élites: quanto a quell'ondata di fondo ancora confusa e sostanzialmente composita che è costituita dai nuovi movimenti islamici di base, è chiaro come essi abbiano una fondamentale componente comune nelle frustrazioni seguite ad una indipendenza attesa come una palingenesi, e nella contestazione che ne deriva nei confronti dell'attuale autorità politica e religiosa. Allo stesso modo, sono chiari i filoni fondamentali e ta-lora contrapposti in cui si inseriscono quei movimenti: meno facile individuare i caratteri specifici eventualmente connessi, in o-gni paese, al diverso atteggiamento dei tre regimi, e gli scenari che ne potrebbero eventualmente derivare.
La principale motivazione con cui la Libia, nel 1970, si staccava dall'intesa maghrebina, fu l'affermazione che un accordo particolare tra un gruppo di paesi arabi veniva a contraddire il grande ideale del panarabismo, e ad allontanarne la realizzazione.
Tensioni con il Machreq
Ora, mentre la Libia e il Marocco, anche se su versanti politicamente opposti, hanno generalmente mantenuto con il Machreq (i paesi dell'Oriente arabo, cioè la regione mediorientale), tanto sul piano « islamico » come sul terreno internatale, rapporti costanti e spesso molto intensi, si può invece notare in Algeri come in Tunisi una accentuata diffidenza nei confronti di qualsiasi programma panarabo: diffidenza nata in parte dal sospetto che vi si celasse — nella strategia di Nasser come nelle disordinate improvvisazioni di Gheddafi — una sostanziale volontà di leadership regionale; ma anche determinata da profonde radici storiche e culturali, che generano in ognuno dei due paesi (e nel caso dell'Algeria, non senza le profonde lacerazioni interne culminate nella dissidenza cabila) un profondo attaccamento alla propria specificità. È un atteggiamento che ha spesso cercato nella storia i suoi simboli, ricorrendo per esempio alla resistenza di Giugurta (nome emblematico spesso ricordato da Bourguiba e significativamente riproposto nel novembre 1983 da Chadli Benjedid, nel discorso di apertura del congresso del Fln).
Nei primi anni d'indipendenza, la Tunisia è rimasta così sostanzialmente estranea non solo al panarabismo ma allo stesso Machreq, da essere indotta, in ostilità alla politica di Nasser, ad abbandonare la Lega araba; e se al contrario vi ha acquisito, negli anni 70, una funzione di sempre maggiore rilievo (tanto da pervenire, come nella Conferenza islamica, alla segreteria generale) è stato soprattutto grazie a quella capacità mediatrice che costituisce la connotazione più costante ed esplicitamente teorizzata della sua politica e-stera, e che spesso ha trovato il suo punto di forza — specialmente in relazione al conflitto arabo-israeliano — proprio in una certa distanza, in cui una posizione nettamente prooccidentale si abbinava a un convinto neutralismo.
Quanto all'Algeria, i suoi rapporti con il Machreq sono stati segnati da una costante diffidenza per le aspirazioni egemoniche di volta in volta evidenti nelle strategie del Cairo, di Baghdad o in altra forma di Riyadh (diffidenza pari, del resto, a quella nutrita e a malapena celata nei confronti dello scomodo vicino Gheddafi). Ciò ha condotto l'Algeria ad una sostanziale estraneità ai giochi interarabi che le ha talora consentito efficaci mediazioni tendenti appunto a ridimensionare qualche tentativo espansionistico (come nell'accordo promosso nel 1975 tra Iran e Iraq). D'altronde, un'osservazione più attenta può individuare questa funzione mediatrice anche nell'azione costantemente svolta da Algeri tra le opposte fazioni create dal conflitto arabo-palestinese, in qualità di moderatore dei « radicali » nell'ambito del « fronte del rifiuto ».
Quanto al Marocco, la sua volontà di stretto inserimento nel mondo arabo ha talora indotto Hassan II a un certo « protagonismo » anche in relazione al conflitto arabo-israeliano, come nel caso della Conferenza di Fès o nel simbolico invio di truppe, mai arrivate al fronte, in occasione della « guerra di ottobre ».
In generale, si può dire che i rapporti con il resto del mondo arabo non contribuiscano alla convergenza tra i paesi del Maghreb: e ne troviamo un esempio recente nelle divergenti posizioni cui ha dato luogo il conflitto Iran-Iraq, e che sarebbe superficiale attribuire soltanto ad una scelta di tipo bipolare. Nel caso della Libia e del Marocco, si può tuttavia parlare di una certa omologia « culturale » anche se tradotta, sul piano politico, in scelte antagoniste, che hanno indubbiamente contribuito alla latente o dichiarante conflittualità da cui sono sempre stati caratterizzati, fino all'accordo dell'estate 1984, i rapporti tra i due paesi. Nell'attuale volontà libica di uscire dall'isolamento — che è stata indubbiamente, per Tripoli, la motivazione dominante di quell'accordo — quella omologia può fornire però ai due paesi una non fragile base d'intesa.
Tale base, invece, è sostanzialmente assente per quanto riguarda le relazioni di Rabat con la Tunisia e l'Algeria: tuttavia, nel quadro dei rapporti con il Machreq, appaiono fra i tre paesi molti motivi di divergenza, ma nessuno di dichiarato conflitto, e alcuni elementi d'intesa (tra i quali l'incondizionato riconoscimento dei diritti del popolo palestinese) che una intensificazione del rapporto intermaghrebino potrebbe notevolmente sviluppare.
Nei primi anni d'indipendenza, la Tunisia è rimasta così sostanzialmente estranea non solo al panarabismo ma allo stesso Machreq, da essere indotta, in ostilità alla politica di Nasser, ad abbandonare la Lega araba; e se al contrario vi ha acquisito, negli anni 70, una funzione di sempre maggiore rilievo (tanto da pervenire, come nella Conferenza islamica, alla segreteria generale) è stato soprattutto grazie a quella capacità mediatrice che costituisce la connotazione più costante ed esplicitamente teorizzata della sua politica e-stera, e che spesso ha trovato il suo punto di forza — specialmente in relazione al conflitto arabo-israeliano — proprio in una certa distanza, in cui una posizione nettamente prooccidentale si abbinava a un convinto neutralismo.
Quanto all'Algeria, i suoi rapporti con il Machreq sono stati segnati da una costante diffidenza per le aspirazioni egemoniche di volta in volta evidenti nelle strategie del Cairo, di Baghdad o in altra forma di Riyadh (diffidenza pari, del resto, a quella nutrita e a malapena celata nei confronti dello scomodo vicino Gheddafi). Ciò ha condotto l'Algeria ad una sostanziale estraneità ai giochi interarabi che le ha talora consentito efficaci mediazioni tendenti appunto a ridimensionare qualche tentativo espansionistico (come nell'accordo promosso nel 1975 tra Iran e Iraq). D'altronde, un'osservazione più attenta può individuare questa funzione mediatrice anche nell'azione costantemente svolta da Algeri tra le opposte fazioni create dal conflitto arabo-palestinese, in qualità di moderatore dei « radicali » nell'ambito del « fronte del rifiuto ».
Quanto al Marocco, la sua volontà di stretto inserimento nel mondo arabo ha talora indotto Hassan II a un certo « protagonismo » anche in relazione al conflitto arabo-israeliano, come nel caso della Conferenza di Fès o nel simbolico invio di truppe, mai arrivate al fronte, in occasione della « guerra di ottobre ».
In generale, si può dire che i rapporti con il resto del mondo arabo non contribuiscano alla convergenza tra i paesi del Maghreb: e ne troviamo un esempio recente nelle divergenti posizioni cui ha dato luogo il conflitto Iran-Iraq, e che sarebbe superficiale attribuire soltanto ad una scelta di tipo bipolare. Nel caso della Libia e del Marocco, si può tuttavia parlare di una certa omologia « culturale » anche se tradotta, sul piano politico, in scelte antagoniste, che hanno indubbiamente contribuito alla latente o dichiarante conflittualità da cui sono sempre stati caratterizzati, fino all'accordo dell'estate 1984, i rapporti tra i due paesi. Nell'attuale volontà libica di uscire dall'isolamento — che è stata indubbiamente, per Tripoli, la motivazione dominante di quell'accordo — quella omologia può fornire però ai due paesi una non fragile base d'intesa.
Tale base, invece, è sostanzialmente assente per quanto riguarda le relazioni di Rabat con la Tunisia e l'Algeria: tuttavia, nel quadro dei rapporti con il Machreq, appaiono fra i tre paesi molti motivi di divergenza, ma nessuno di dichiarato conflitto, e alcuni elementi d'intesa (tra i quali l'incondizionato riconoscimento dei diritti del popolo palestinese) che una intensificazione del rapporto intermaghrebino potrebbe notevolmente sviluppare.
I rapporti con l'Africa subsahariana
II settore più carico di elementi antagonisti, comunque, è sempre stato e rimane, per i paesi del Maghreb, l'Africa subsahariana. Salvo rari momenti di convergenza, le strategie africane dei paesi maghrebini si sono sempre più sviluppate secondo linee divaricanti, lasciando sussistere una certa omogeneità soltanto fra Tunisia e Marocco. Da parte tunisina, l'esistenza di un rapporto privilegiato con l'Africa nera era stato fin da principio teorizzato come una componente strutturale risalente all'impero Almoravide, e pertanto come una dimensione fondamentale di quella funzione di tramite tra vari mondi (e in particolare tra l'Africa e l'Europa) che si era consolidata lungo millenni di storia.
A questo tipo di approccio, aveva corrisposto nei primi anni '60 una vasta strategia di accordi bilaterali, che si è andata poi gradatamente circoscrivendo all'area delle intese tra « francofoni » promosse dalla Francia. Questo ha determinato un sostanziale allineamento con la politica di Parigi (e più indirettamente con quella di Washington) nei confronti dei vari conflitti africani: tuttavia, con quella cautela che caratterizza la politica tunisina, sempre aliena da clamorose scelte di campo. Di qui, anche la ricerca di mezzi indiretti d'azione, come il tentativo, svolto in collaborazione con il Senegal, di coagulare quel gruppo sostanzialmente conservatore e filoccidentale che va sotto l'etichetta del « socialismo africano »: e d'altra parte, l'azione di coordinamento e di promozione svolta per la creazione di una agenzia africana di informazione, secondo l'esigenza polemicamente avanzata in varie sedi internazionali dall'ala « progressista » del Terzo mondo.
Ben più recisamente univoca, la politica marocchina è sostanzialmente caratterizzata, più che da autonoma strategia, da diretti interessi congiunturali. All'inizio degli anni '60, si è trattato della volontà di bloccare la costituzione di uno Stato mauritano indipendente appoggiata dagli Stati africani conservatori: esigenza che ha costituito uno degli incentivi determinanti per l'inserimento del Marocco — con decisione indubbiamente ardita per un regime come quello alaouita — in quel fronte dei radicali che avrebbe preso il nome di « gruppo di Casablanca » (1961), e per l'attiva adesione al panafricanismo di Nkrumah. A parte la brusca svolta segnata successivamente dall'inserimento marocchino nell'ambito « francofono », la politica subsahariana di Hassan II si può dire sostanzialmente inesistente per un decennio, e cioè fino al momento in cui la questione sahariana avrebbe dato nuovo impulso alla ricerca di appoggi africani: questa volta, contrariamente a quanto era avvenuto per la Mauritania, nel vasto fronte dei paesi conservatori. Da allora, abbiamo assistito alle più clamorose esibizioni di attivo appoggio alla strategia africana dell'Occidente e in particolare della Francia, dal concreto sostegno al Fina durante la guerra civile angolana all'invio di truppe nello Shaba (Zaire), alle periodiche offerte d'intervento nel Sudan in funzione direttamente antagonista rispetto alla politica di Gheddafi. Se questa seconda strategia ha creato sensibili tensioni con la Libia, soprattutto per quanto riguarda la zona di sutura fra Nord Africa e Africa nera, è evidente che la contrapposizione con l'Algeria, già inerente a ciascuna di queste scelte, è stata esasperata dal dissenso sul Sahara occidentale, schierando i due paesi su due fronti africani contrapposti.
Si deve tuttavia sottolineare un particolare di rilievo: se l'uno e l'altro incentivo a quelle opposte politiche — questioni della Mauritania e del Sahara occidentale — sono strettamente inseriti nella regione maghre-bina e, indirettamente, nella sfera degli interessi arabi, in ambedue le strategie successivamente adottate, il Marocco ha potuto istituire con preciso collegamento con il Machreq: per la prima fase, attraverso la coincidenza nella politica panafricanista, e per la seconda attraverso la coincidenza con la politica africana che la Conferenza islamica, sebbene prioritariamente interessata agli e-quilibri del Corno, svolge tuttavia anche nell'Africa occidentale e particolarmente nel Sahel.
In certo senso, si può dire che non esista nella politica marocchina un concreto disegno africano se non subordinatamente a un progetto nazionale in cui convergono interessi economici attuali e reminiscenze di una tradizione imperiale, e che esige per la sua realizzazione un retroterra africano relativamente sicuro, pure cercando altrove, e soprattutto nel mondo arabo, i suoi punti di riferimento. Questa intersezione contribuisce talora a esasperare le tensioni intermaghrebine e inter-arabe attraverso complesse proiezioni subsahariane: tuttavia, questo carattere per così dire derivato della politica africana di Rabat rende più credibile l'ipotesi che una maggiore integrazione maghrebina possa provocare un notevole allentamento delle tensioni attualmente presenti rispetto al quadrante africano, d'altra parte contribuendo alla sua stabilizzazione.
Se i contrasti inerenti alla politica marocchina sono indubbiamente i più esplosivi, bisogna tuttavia osservare che soltanto la Tunisia appare aliena da qualsiasi rischiosa e lacerante gara con i suoi vicini nei confronti dell'Africa subsahariana. Infatti tra Libia e Algeria esiste indubbiamente una rivalità che non è mai arrivata al conflitto, e anzi, viene generalmente mascherata dalle supposte convergenze con cui i due paesi si presentano programmaticamente in alcuni settori della scena internazionale, ma che potrebbe domani trasformarsi in divaricazioni.
Ambedue i paesi svolgono una politica africana che può considerarsi come totalmente autonoma, e tendente ad esercitare una influenza tous azimouts. Nel caso di Gheddafi, è una politica abbandonata come sempre, e forse più che in altre regioni, all'improvvisazione (dall'appoggio prioritario corrisposto a Mobutu e Amin, ai reiterati interventi nel Ciad, alle azioni di disturbo nei confronti del Sudan) e prevalentemente condotta attraverso strumenti finanziari: crediti, joint-ventu-res, aiuti. Nel caso dell'Algeria, si tratta invece di una vasta politica organicamente perseguita sotto i suoi tre successivi leaders, e che ha condotto a una fittissima rete di accordi bilaterali di cooperazione. Ma ovviamente, da parte di ambedue i paesi, lo sforzo di penetrazione è più accentuato nella regione subdesertica, dove l'intervento libico nel Ciad ha aggravato una delle più complesse crisi africane, e dove l'Algeria ha costituito una cooperazione organica con il gruppo dei « paesi rivieraschi del Sahara »: e appunto su questo terreno non sono da escludere possibili
frizioni tra Algeri e Tripoli, e una permanente diffidenza.
Anche nel caso della Libia, i rapporti con il Machreq esercitano una costante interazione con le sue scelte subsahariane, dal Corno al Ciad. Questo fattore si può invece considerare, anche a questo riguardo, del tutto assente dalle posizioni algerine. Possiamo ricordare che dall'aumento dei prezzi del petrolio, Algeri ha tenuto a svolgere un ruolo di promozione ai fini di una cooperazione multilaterale tra mondo arabo e mondo africano, ma ha voluto mantenere così totalmente la propria autonomia rispetto all'intervento arabo, da istituire un proprio fondo per l'Africa affiliato bensì alla Banca araba per lo sviluppo africano — unica espressione concreta di quella cooperazione — ma da questa indipendente nelle sue scelte. L'elemento dominante nel rapporto algerino con l'Africa subsahariana, oltre al costante appoggio a tutti i movimenti anticolonialisti, si può individuare nel fatto che il continente africano costituisce il primo referente per quel ruolo di paese-guida del Terzo mondo nei confronti del Nord industrializzato che è stato la massima aspirazione di Boumediene e cui l'Algeria non sembra malgrado tutto rinunciare.
Lo scenario internazionale
Nell'insieme, la strategia subsahariana dei quattro paesi (nei confronti dei quali la Mau-ritania ha comunque un ruolo minore) presenta dunque numerose incognite. Tuttavia, non è da escludere che una composizione della questione sahariana possa ricondurre il Marocco alla relativa estraneità dimostrata in passato per le vicende dell'area. La impreve-dibilità dell'azione di Gheddafi rende meno facile l'individuazione di uno scenario per quanto riguarda la possibile rivalità libico-algerina nella regione subsahariana: tuttavia, l'assenza di specifiche connotazioni politiche di tale azione — salvo quelle connesse alla dialettica interaraba — può accentuare anche per Tripoli l'influenza di un consolidamento degli accordi intermaghrebini.
Infine, rimane da esaminare la catalizzazione europea. Se essa ha dominato, come abbiamo ricordato, le intese maghrebine del 1964 e 1970, la preparazione dei nuovi accordi Cee-Maghreb è stata un fattore prioritario, insieme alle prospettive aperte alla Conferenza di Helsinki, nei tentativi di rilancio che hanno dato luogo nel 1972 a una nuova serie di incontri al vertice. È una catalizzazione che nessuno dei tre governi ha mai messo in questione. Sostanzialmente, tale posizione non è mutata né di fatto, né per quanto riguarda le strategie di Algeri, di Tunisi e di Rabat.
La recente politica libica nei confronti del Marocco, che lascia intravvedere in Tripoli un crescente bisogno di uscire dall'usuale ruolo di chevalier setti, e alcuni sintomi di avvicinamento diretto, possono fare ipotizzare anche in Gheddafi una maggiore attenzione all'Europa, che sarebbe indubbiamente stimolata da un avvicinamento intermaghrebino. In generale, le divergenze più pericolose sono sorte finora, come abbiamo visto, non per qualche sintomo di allontanamento dall'Europa, ma nell'ambito della catalizzazione europea, per una incondizionata adesione alla strategia di un solo Stato, la Francia, e nei confronti del mondo occidentale nel suo complesso, per una sovrastante presenza statunitense: ipotesi che hanno avuto concreto riscontro nel caso del Marocco. A questo proposito, bisogna mettere in rilievo una distinzione fondamentale tra l'atteggiamento marocchino e quello tunisino e algerino: pure non essendo, come dicevamo, messa in questione, la catalizzazione europea ha per il Marocco un fortissimo contrappeso nella catalizzazione atlantica, che si traduce da un lato, per quanto riguarda l'Europa, nella importanza prioritaria della relazione tradizionale e spesso ambivalente con quel paese tra due versanti che è la Spagna (relazione alle cui alterne vicende si può attribuire anche la sfida lanciata dal Marocco con la recente richiesta di adesione alla Cee), e d'altra parte nella presenza dominante degli Stati Uniti, cui soltanto il Marocco, nonostante i rapporti molto stretti e in qualche periodo priori-tari tra Tunisi e Washington, ha concesso delle basi militari nella regione maghrebina.
Una maggiore intesa politica intermaghre-bina potrebbe forse controbilanciare, in certa misura, questi fattori di estroversione marocchina rispetto all'Europa. Anche a questo fine, si può invece ritenere sostanzialmente negativo un approfondimento del solo accor do Libia-Marocco, che potrebbe facilmente condurre, permanendo le tensioni con gli altri paesi, a una sorta di enclave politica proiettata dal Maghreb verso il Machreq, con gli effetti laceranti che, nell'ambito maghre-bino, già si potevano intravvedere nelle reazioni algerine all'accordo di Oujda.
Gli incontri al vertice degli anni 70 hanno avuto come tema dominante, insieme ai rapporti con la Cee, i problemi della sicurezza del Mediterraneo. In certa misura, pel i paesi maghrebini catalizzazione europea e catalizzazione mediterranea si sono dimostrate, di fatto, convergenti: innanzi tutto per il ruolo ipoteticamente assegnato e più volte richiesto all'Europa comunitaria, quale possibile argine al trasferimento della conflittualità Est-Ovest nell'ambito mediterraneo. A questo proposito, le iniziative algerine e tunisine, lungo gli anni 70, sono state numerose, dalle dichiarazioni ufficialmente e-manate da quegli incontri al vertice sulla necessità di allontanare dal Mediterraneo le flotte straniere, all'azione svolta in seno ai non allineati perché il Mediterraneo venisse dichiarato « mare di pace », alle proposte di una conferenza tra rivieraschi non impegnati in blocchi militari, e infine all'intensa azione diplomatica svolta fin da principio in seno alla Csce per una estensione al Mediterraneo degli accordi sulla sicurezza europea. La diversa polarizzazione marocchina trova conferma nel relativo disinteresse dimostrato per i problemi mediterranei in occasione di queste varie iniziative. Quanto alla Libia, è chiaro che il suo interesse mediterraneo, per il quale Tripoli ha cercato di fare leva non solo su Malta, ma, meno manifestamente, anche su Atene, ha finora dato luogo soltanto ad una strategia dirompente, tendente ad acquisire qualche punto di forza da usare in funzione di cuneo.
Nella nostra analisi delle diverse strategie maghrebine, abbiamo dedicato maggiore attenzione ai fattori endogeni che all'inserimento di quelle politiche nelle tensioni bipolari presenti nel Mediterraneo e nell'area arabo-africana. Questo fattore è indubbiamente rilevante, ma non sembra tuttavia costituire una componente strutturale di quelle strategie. Nel caso della Tunisia e dell'Algeria, riteniamo che esista una incontestabile volontà di tenere il più possibile estranea a tale tensione l'area regionale. A parte l'azione assiduamente svolta, anche se con accentuazioni diverse, in seno ai non allineati per indurii a una sostanziale equidistanza, ci limitiamo a ricordare da un lato l'entità degli accordi e-conomici e degli scambi commerciali tra Algeri e Washington, e d'altra parte la cura sempre manifestata da Tunisi nell'assicurare con Mosca i rapporti più distesi. Nel caso di Tripoli, le variazioni strategiche della politica praticata possono occasionalmente coincidere con gli interessi di una grande potenza (come è stato per l'Urss nel caso della rinnovata « fusione » con la Siria) : ma tale coincidenza rimane sostanzialmente congiunturale.
Certamente meno congiunturale, perché fondato innanzi tutto sulla massiccia penetrazione economica iniziata negli anni '60, e tuttora alimentato da una politica di aiuti economici e militari che hanno creato una dipendenza organica, è il rapporto del Marocco con gli Stati Uniti: rapporto che allo stato attuale delle cose, può indubbiamente costituire, nell'ambito del Maghreb, un fattore di turbamento. Non si deve tuttavia sottovalutare né l'entità degli accordi economici stipulati da Rabat con l'Urss (che del resto si è sempre guardata dal prendere posizioni troppo drastiche sul problema del Sahara occidentale) né il legame prioritario della politica estera alouita con progetti e interessi di carattere prettamente nazionale. D'altra parte, dopo la visita di Chadli in America le relazioni Algeria-Usa sono entrate in una fase di netta benevolenza. Una soluzione della questione sahariana attenuerebbe senza dubbio il massimo incentivo che gioca attualmente a favore degli Stati Uniti, e cioè la necessità di forniture militari, di aiuti che compensino l'estenuante sforzo bellico e, più indirettamente, dell'influenza politica che Washington può esercitare. Una maggiore intesa maghrebina — di cui la composizione del contenzioso sahariano è una fondamentale precondizione e che dovrebbe avere il suo « cuore duro » in una concertazione tra Algeria e Tunisia — potrebbe dunque attenuare le più pericolose incidenze regionali del bipolarismo Est-Ovest, con un effetto politicamente stabilizzante in tutti i quadranti dello scacchiere euro-mediterraneo-arabo-africano.
A questo tipo di approccio, aveva corrisposto nei primi anni '60 una vasta strategia di accordi bilaterali, che si è andata poi gradatamente circoscrivendo all'area delle intese tra « francofoni » promosse dalla Francia. Questo ha determinato un sostanziale allineamento con la politica di Parigi (e più indirettamente con quella di Washington) nei confronti dei vari conflitti africani: tuttavia, con quella cautela che caratterizza la politica tunisina, sempre aliena da clamorose scelte di campo. Di qui, anche la ricerca di mezzi indiretti d'azione, come il tentativo, svolto in collaborazione con il Senegal, di coagulare quel gruppo sostanzialmente conservatore e filoccidentale che va sotto l'etichetta del « socialismo africano »: e d'altra parte, l'azione di coordinamento e di promozione svolta per la creazione di una agenzia africana di informazione, secondo l'esigenza polemicamente avanzata in varie sedi internazionali dall'ala « progressista » del Terzo mondo.
Ben più recisamente univoca, la politica marocchina è sostanzialmente caratterizzata, più che da autonoma strategia, da diretti interessi congiunturali. All'inizio degli anni '60, si è trattato della volontà di bloccare la costituzione di uno Stato mauritano indipendente appoggiata dagli Stati africani conservatori: esigenza che ha costituito uno degli incentivi determinanti per l'inserimento del Marocco — con decisione indubbiamente ardita per un regime come quello alaouita — in quel fronte dei radicali che avrebbe preso il nome di « gruppo di Casablanca » (1961), e per l'attiva adesione al panafricanismo di Nkrumah. A parte la brusca svolta segnata successivamente dall'inserimento marocchino nell'ambito « francofono », la politica subsahariana di Hassan II si può dire sostanzialmente inesistente per un decennio, e cioè fino al momento in cui la questione sahariana avrebbe dato nuovo impulso alla ricerca di appoggi africani: questa volta, contrariamente a quanto era avvenuto per la Mauritania, nel vasto fronte dei paesi conservatori. Da allora, abbiamo assistito alle più clamorose esibizioni di attivo appoggio alla strategia africana dell'Occidente e in particolare della Francia, dal concreto sostegno al Fina durante la guerra civile angolana all'invio di truppe nello Shaba (Zaire), alle periodiche offerte d'intervento nel Sudan in funzione direttamente antagonista rispetto alla politica di Gheddafi. Se questa seconda strategia ha creato sensibili tensioni con la Libia, soprattutto per quanto riguarda la zona di sutura fra Nord Africa e Africa nera, è evidente che la contrapposizione con l'Algeria, già inerente a ciascuna di queste scelte, è stata esasperata dal dissenso sul Sahara occidentale, schierando i due paesi su due fronti africani contrapposti.
Si deve tuttavia sottolineare un particolare di rilievo: se l'uno e l'altro incentivo a quelle opposte politiche — questioni della Mauritania e del Sahara occidentale — sono strettamente inseriti nella regione maghre-bina e, indirettamente, nella sfera degli interessi arabi, in ambedue le strategie successivamente adottate, il Marocco ha potuto istituire con preciso collegamento con il Machreq: per la prima fase, attraverso la coincidenza nella politica panafricanista, e per la seconda attraverso la coincidenza con la politica africana che la Conferenza islamica, sebbene prioritariamente interessata agli e-quilibri del Corno, svolge tuttavia anche nell'Africa occidentale e particolarmente nel Sahel.
In certo senso, si può dire che non esista nella politica marocchina un concreto disegno africano se non subordinatamente a un progetto nazionale in cui convergono interessi economici attuali e reminiscenze di una tradizione imperiale, e che esige per la sua realizzazione un retroterra africano relativamente sicuro, pure cercando altrove, e soprattutto nel mondo arabo, i suoi punti di riferimento. Questa intersezione contribuisce talora a esasperare le tensioni intermaghrebine e inter-arabe attraverso complesse proiezioni subsahariane: tuttavia, questo carattere per così dire derivato della politica africana di Rabat rende più credibile l'ipotesi che una maggiore integrazione maghrebina possa provocare un notevole allentamento delle tensioni attualmente presenti rispetto al quadrante africano, d'altra parte contribuendo alla sua stabilizzazione.
Se i contrasti inerenti alla politica marocchina sono indubbiamente i più esplosivi, bisogna tuttavia osservare che soltanto la Tunisia appare aliena da qualsiasi rischiosa e lacerante gara con i suoi vicini nei confronti dell'Africa subsahariana. Infatti tra Libia e Algeria esiste indubbiamente una rivalità che non è mai arrivata al conflitto, e anzi, viene generalmente mascherata dalle supposte convergenze con cui i due paesi si presentano programmaticamente in alcuni settori della scena internazionale, ma che potrebbe domani trasformarsi in divaricazioni.
Ambedue i paesi svolgono una politica africana che può considerarsi come totalmente autonoma, e tendente ad esercitare una influenza tous azimouts. Nel caso di Gheddafi, è una politica abbandonata come sempre, e forse più che in altre regioni, all'improvvisazione (dall'appoggio prioritario corrisposto a Mobutu e Amin, ai reiterati interventi nel Ciad, alle azioni di disturbo nei confronti del Sudan) e prevalentemente condotta attraverso strumenti finanziari: crediti, joint-ventu-res, aiuti. Nel caso dell'Algeria, si tratta invece di una vasta politica organicamente perseguita sotto i suoi tre successivi leaders, e che ha condotto a una fittissima rete di accordi bilaterali di cooperazione. Ma ovviamente, da parte di ambedue i paesi, lo sforzo di penetrazione è più accentuato nella regione subdesertica, dove l'intervento libico nel Ciad ha aggravato una delle più complesse crisi africane, e dove l'Algeria ha costituito una cooperazione organica con il gruppo dei « paesi rivieraschi del Sahara »: e appunto su questo terreno non sono da escludere possibili
frizioni tra Algeri e Tripoli, e una permanente diffidenza.
Anche nel caso della Libia, i rapporti con il Machreq esercitano una costante interazione con le sue scelte subsahariane, dal Corno al Ciad. Questo fattore si può invece considerare, anche a questo riguardo, del tutto assente dalle posizioni algerine. Possiamo ricordare che dall'aumento dei prezzi del petrolio, Algeri ha tenuto a svolgere un ruolo di promozione ai fini di una cooperazione multilaterale tra mondo arabo e mondo africano, ma ha voluto mantenere così totalmente la propria autonomia rispetto all'intervento arabo, da istituire un proprio fondo per l'Africa affiliato bensì alla Banca araba per lo sviluppo africano — unica espressione concreta di quella cooperazione — ma da questa indipendente nelle sue scelte. L'elemento dominante nel rapporto algerino con l'Africa subsahariana, oltre al costante appoggio a tutti i movimenti anticolonialisti, si può individuare nel fatto che il continente africano costituisce il primo referente per quel ruolo di paese-guida del Terzo mondo nei confronti del Nord industrializzato che è stato la massima aspirazione di Boumediene e cui l'Algeria non sembra malgrado tutto rinunciare.
Lo scenario internazionale
Nell'insieme, la strategia subsahariana dei quattro paesi (nei confronti dei quali la Mau-ritania ha comunque un ruolo minore) presenta dunque numerose incognite. Tuttavia, non è da escludere che una composizione della questione sahariana possa ricondurre il Marocco alla relativa estraneità dimostrata in passato per le vicende dell'area. La impreve-dibilità dell'azione di Gheddafi rende meno facile l'individuazione di uno scenario per quanto riguarda la possibile rivalità libico-algerina nella regione subsahariana: tuttavia, l'assenza di specifiche connotazioni politiche di tale azione — salvo quelle connesse alla dialettica interaraba — può accentuare anche per Tripoli l'influenza di un consolidamento degli accordi intermaghrebini.
Infine, rimane da esaminare la catalizzazione europea. Se essa ha dominato, come abbiamo ricordato, le intese maghrebine del 1964 e 1970, la preparazione dei nuovi accordi Cee-Maghreb è stata un fattore prioritario, insieme alle prospettive aperte alla Conferenza di Helsinki, nei tentativi di rilancio che hanno dato luogo nel 1972 a una nuova serie di incontri al vertice. È una catalizzazione che nessuno dei tre governi ha mai messo in questione. Sostanzialmente, tale posizione non è mutata né di fatto, né per quanto riguarda le strategie di Algeri, di Tunisi e di Rabat.
La recente politica libica nei confronti del Marocco, che lascia intravvedere in Tripoli un crescente bisogno di uscire dall'usuale ruolo di chevalier setti, e alcuni sintomi di avvicinamento diretto, possono fare ipotizzare anche in Gheddafi una maggiore attenzione all'Europa, che sarebbe indubbiamente stimolata da un avvicinamento intermaghrebino. In generale, le divergenze più pericolose sono sorte finora, come abbiamo visto, non per qualche sintomo di allontanamento dall'Europa, ma nell'ambito della catalizzazione europea, per una incondizionata adesione alla strategia di un solo Stato, la Francia, e nei confronti del mondo occidentale nel suo complesso, per una sovrastante presenza statunitense: ipotesi che hanno avuto concreto riscontro nel caso del Marocco. A questo proposito, bisogna mettere in rilievo una distinzione fondamentale tra l'atteggiamento marocchino e quello tunisino e algerino: pure non essendo, come dicevamo, messa in questione, la catalizzazione europea ha per il Marocco un fortissimo contrappeso nella catalizzazione atlantica, che si traduce da un lato, per quanto riguarda l'Europa, nella importanza prioritaria della relazione tradizionale e spesso ambivalente con quel paese tra due versanti che è la Spagna (relazione alle cui alterne vicende si può attribuire anche la sfida lanciata dal Marocco con la recente richiesta di adesione alla Cee), e d'altra parte nella presenza dominante degli Stati Uniti, cui soltanto il Marocco, nonostante i rapporti molto stretti e in qualche periodo priori-tari tra Tunisi e Washington, ha concesso delle basi militari nella regione maghrebina.
Una maggiore intesa politica intermaghre-bina potrebbe forse controbilanciare, in certa misura, questi fattori di estroversione marocchina rispetto all'Europa. Anche a questo fine, si può invece ritenere sostanzialmente negativo un approfondimento del solo accor do Libia-Marocco, che potrebbe facilmente condurre, permanendo le tensioni con gli altri paesi, a una sorta di enclave politica proiettata dal Maghreb verso il Machreq, con gli effetti laceranti che, nell'ambito maghre-bino, già si potevano intravvedere nelle reazioni algerine all'accordo di Oujda.
Gli incontri al vertice degli anni 70 hanno avuto come tema dominante, insieme ai rapporti con la Cee, i problemi della sicurezza del Mediterraneo. In certa misura, pel i paesi maghrebini catalizzazione europea e catalizzazione mediterranea si sono dimostrate, di fatto, convergenti: innanzi tutto per il ruolo ipoteticamente assegnato e più volte richiesto all'Europa comunitaria, quale possibile argine al trasferimento della conflittualità Est-Ovest nell'ambito mediterraneo. A questo proposito, le iniziative algerine e tunisine, lungo gli anni 70, sono state numerose, dalle dichiarazioni ufficialmente e-manate da quegli incontri al vertice sulla necessità di allontanare dal Mediterraneo le flotte straniere, all'azione svolta in seno ai non allineati perché il Mediterraneo venisse dichiarato « mare di pace », alle proposte di una conferenza tra rivieraschi non impegnati in blocchi militari, e infine all'intensa azione diplomatica svolta fin da principio in seno alla Csce per una estensione al Mediterraneo degli accordi sulla sicurezza europea. La diversa polarizzazione marocchina trova conferma nel relativo disinteresse dimostrato per i problemi mediterranei in occasione di queste varie iniziative. Quanto alla Libia, è chiaro che il suo interesse mediterraneo, per il quale Tripoli ha cercato di fare leva non solo su Malta, ma, meno manifestamente, anche su Atene, ha finora dato luogo soltanto ad una strategia dirompente, tendente ad acquisire qualche punto di forza da usare in funzione di cuneo.
Nella nostra analisi delle diverse strategie maghrebine, abbiamo dedicato maggiore attenzione ai fattori endogeni che all'inserimento di quelle politiche nelle tensioni bipolari presenti nel Mediterraneo e nell'area arabo-africana. Questo fattore è indubbiamente rilevante, ma non sembra tuttavia costituire una componente strutturale di quelle strategie. Nel caso della Tunisia e dell'Algeria, riteniamo che esista una incontestabile volontà di tenere il più possibile estranea a tale tensione l'area regionale. A parte l'azione assiduamente svolta, anche se con accentuazioni diverse, in seno ai non allineati per indurii a una sostanziale equidistanza, ci limitiamo a ricordare da un lato l'entità degli accordi e-conomici e degli scambi commerciali tra Algeri e Washington, e d'altra parte la cura sempre manifestata da Tunisi nell'assicurare con Mosca i rapporti più distesi. Nel caso di Tripoli, le variazioni strategiche della politica praticata possono occasionalmente coincidere con gli interessi di una grande potenza (come è stato per l'Urss nel caso della rinnovata « fusione » con la Siria) : ma tale coincidenza rimane sostanzialmente congiunturale.
Certamente meno congiunturale, perché fondato innanzi tutto sulla massiccia penetrazione economica iniziata negli anni '60, e tuttora alimentato da una politica di aiuti economici e militari che hanno creato una dipendenza organica, è il rapporto del Marocco con gli Stati Uniti: rapporto che allo stato attuale delle cose, può indubbiamente costituire, nell'ambito del Maghreb, un fattore di turbamento. Non si deve tuttavia sottovalutare né l'entità degli accordi economici stipulati da Rabat con l'Urss (che del resto si è sempre guardata dal prendere posizioni troppo drastiche sul problema del Sahara occidentale) né il legame prioritario della politica estera alouita con progetti e interessi di carattere prettamente nazionale. D'altra parte, dopo la visita di Chadli in America le relazioni Algeria-Usa sono entrate in una fase di netta benevolenza. Una soluzione della questione sahariana attenuerebbe senza dubbio il massimo incentivo che gioca attualmente a favore degli Stati Uniti, e cioè la necessità di forniture militari, di aiuti che compensino l'estenuante sforzo bellico e, più indirettamente, dell'influenza politica che Washington può esercitare. Una maggiore intesa maghrebina — di cui la composizione del contenzioso sahariano è una fondamentale precondizione e che dovrebbe avere il suo « cuore duro » in una concertazione tra Algeria e Tunisia — potrebbe dunque attenuare le più pericolose incidenze regionali del bipolarismo Est-Ovest, con un effetto politicamente stabilizzante in tutti i quadranti dello scacchiere euro-mediterraneo-arabo-africano.
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